Le relazioni familiari

Se ampliamo il campo di studio all’ambiente sociale dove l’uomo è inserito, si può osservare che le situazioni familiari “particolari” hanno una notevole influenza sull’insorgenza e sul mantenimento delle malattie croniche[i]. Questo  è valido  sia per le patologie psichiche, sia per i comportamenti alimentari (anoressia, bulimia, obesità  o vomito psicogeno), ma anche per malattie somatiche come asma, diabete, psoriasi o retto colite ulcerosa.                                     In casi come quelli sopra elencati, è di fondamentale importanza un approccio terapeutico che  tenga conto delle problematiche non solo individuali ma anche familiari.

Negli anni ’50 vari studi sui bambini affetti da asma dimostrarono che i loro sintomi miglioravano solo durante il ricovero in ospedale. Progressi di questo genere non erano dovuti all’ambiente asettico, tipico dell’ospedale, ma alla lontananza dai conflitti e dalle tensioni familiari. A dimostrazione di ciò i bambini furono esposti alla polvere verso la quale si presumeva l’allergia  e non manifestarono alcuna crisi di asma.

Finanche la nota psicoanalista Hilde Bruch, che si occupava di disturbi alimentari, aveva notato quanto i suoi pazienti fossero morbosamente legati ai propri genitori e alla famiglia in genere, al punto che non si doveva pensare solo ad una terapia che cercasse di modificare la relazione patologica. In quegli stessi anni le teorie sistemiche e la cibernetica[ii] offrirono una nuova visione di affrontare queste situazioni.

Il primo ad utilizzare questi innovativi approcci in psicosomatica  fu Don D. Jackson, il quale trattò, con la terapia ad orientamento sistemico, famiglie di pazienti affetti da retto colite ulcerosa, riscontrando un particolare comportamento  che chiamo restrittivo. Sin dall’inizio Don D. Jackson notò che i nuclei familiari di questo genere erano caratterizzati da relazioni povere a causa di imposizione di regole educative molto rigide, che impedivano ai membri del gruppo familiare la libera comunicazione dei propri sentimenti e la manifestazione di dissensi e di conflitti.

Tutto  questo non permetteva lo sviluppo delle autonomie e limitava l’integrazione delle relazioni sociali. Per tanto le relazioni a scuola o sul lavoro risultavano  faticose, scarse e molto formali.   Inoltre, Jackson ipotizzò che lo stress  familiare  attivasse nel paziente un comportamento,  che contribuisse alla conservazione della propria malattia e,  con “modalità circolare”,  al mantenimento dell’equilibrio familiare (omeostasi del sistema).

Verso la fine degli anni ’60 le teorie sistemiche e cibernetiche si diffusero in tutta l’Europa e in particolare in Italia, qui la psicoanalista e psicoterapeuta Mara Selvini Palazzoli[iii] fondò, insieme ai suoi allievi un Centro di terapia familiare. Mara Selvini Palazzoli, sviluppò il noto modello sistemico, i suoi studi si basarono sulle molteplici famiglie dei pazienti affetti da anoressia mentale e bulimia. Nelle stesse, individuò peculiarità importanti che sembravano favorire il disturbo: – l’inclinazione a respingere qualsiasi asserzione fatta da altri; – l’incapacità  di individuare un leader all’interno della propria famiglia; – il divieto di stabilire ogni forma di alleanza; – l’inabilità ad assumersi delle responsabilità. Così  si dedusse, che il sintomo del disturbo alimentare diventa l’espressione della  forma  comunicativa di tutta la famiglia. Non a caso, infatti, questi genitori  riversando sui figli preoccupazioni e attenzioni frequentemente  gli negano l’autonomia. In situazioni come questa appena descritta, la paziente vive un continuo  stato di sofferenza, specie quando si relaziona con la famiglia di appartenenza.

Il gruppo  della Selvini ha sviluppato un proprio modello terapeutico con l’obiettivo di interrompere il «gioco patologico» della famiglia mediante tecniche quali: la prescrizione paradossale e la connotazione positiva. Con prima tecnica si richiede al paziente o alla famiglia di manifestare o di produrre un comportamento problematico, mentre la seconda permette di sottolineare l’utilità del disturbo per il benessere della famiglia. Con il passare degli anni il modello iniziale ha subito notevoli modifiche e talvolta è risultato compatibile con gli interventi psicoanalitici individuali.


[i] E’ un dato comune che i pazienti con disordini psicopatologici lamentino facilmente di dolore. Il Dolore è un’esperienza sensoriale ed emozionale spiacevole associata a danno tessutale presente o potenziale o descritta come tale. Per ulteriori approfondimenti Cfr. Ercolani M., “Malati di Dolore”, Zanichelli, Bologna, 2001.

[ii] Di teoria sistemica e cibernetica se ne parla all’interno del paragrafo “Psicosomatica secondo una prospettiva sistemica”, Cit. pp.1-2

[iii] «Nata a Milano in una famiglia dai turbinosi ritmi di vita anche per l’originalissima e intraprendente personalità del padre, questa donna straordinaria è riuscita a sopravvivere psicologicamente agli stress dell’infanzia e del difficile rapporto con i genitori grazie alla sua capacità di resilienza, ossia di quel fattore positivo in grado non solo di superare, ma di rendere produttivi eventi e condizioni di vita altrimenti negativi.

Come afferma il figlio Matteo, tali fattori di resilienza sono riconoscibili nella Selvini sia nella sua capacità di relazione con le persone, sia nella dedizione allo studio, sia ancora nella sua spiccata attitudine a non essere passiva, a non sentirsi vittima, a lottare senza odiare.

Come medico, psichiatra e psicoanalista Mara Selvini ha dedicato la prima parte della sua vita professionale al trattamento di ragazze anoressiche, divenendo, negli anni 60 una esperta di fama europea anche attraverso la pubblicazione, nel 1962, del libro “L’anoressia mentale” (Feltrinelli, Milano).

Affascinata dall’esordiente movimento di T.F. in U.S.A., la Selvini nel 1967 ha fondato a Milano, con colleghi medici, il primo Centro per lo studio della Famiglia, inizialmente ad orientamento psicoanalitico, successivamente adottando il modello/strategico di Palo Alto per il lavoro con le famiglie di giovani psicotici e anoressiche.

Il testo “Paradosso e controparadosso” (Feltrinelli, Milano, 1975) scritto in collaborazione con L. Boscolo, G. Cecchin e G. Prata avrà grande influenza nella pratica della T.F. specie per il rigore metodologico e la creatività degli interventi paradossali.

Successivamente Mara Selvini svilupperà in modo originale la T.F. abbandonando il modello strategico a favore di una progressiva ricerca sia sul gioco familiare, sia sulla contestualizzazione dei sintomi/problemi nella storia familiare, sia ancora sulla riscoperta dell’individuo con le sue emozioni, aspettative e sofferenze.

Troppo lungo sarebbe descrivere il variegato itinerario di ricerca vissuto dalla Selvini sia con la sua prima équipe che con quella formata nel 1982 con S. Cirillo, A.M. Sorrentino e il figlio Matteo, dopo la costituzione del Nuovo Centro per lo studio della Famiglia e poi della Scuola di specializzazione in T.F., che oggi porta il suo nome. Basti ricordare i due testi fondamentali elaborati negli anni ‘80 e ‘90 “I giochi psicotici della famiglia” (Cortina, Milano, 1988) e “Ragazze anoressiche e bulimiche” (Cortina, Milano, 1998) come espressione di una intensa attività di studio e ricerca. Molti sono stati i riconoscimenti scientifici tributati alla Selvini in Italia e all’estero per la sua attività di ricercatrice e di psicoterapeuta. Forse quello che più le avrebbe toccato il cuore riguarda la riconoscenza e l’affettuosa stima dei suoi allievi e collaboratori, molti dei quali, nel giorno della sua commemorazione hanno espresso con commovente sincerità e semplicità la loro gratitudine per aver avuto il privilegio di conoscerla, di essere stati influenzati dal suo pensiero in costante evoluzione, dalla sua esuberante personalità, dalla sua intensa curiosità intellettuale edalla sua profonda umanità come donna, docente e terapeuta. »

Lerma M., Articolo CONVEGNO INTERNAZIONALE “I Pionieri della Terapia familiare”Roma 8/10 dicembre 2000 organizzato da Accademia di psicoterapia della famiglia di Roma, Istituto di terapia familiare di Firenze, Scuola romana di psicoterapia familiare di Roma, www.formazione.eu.com, 2007, Cit, p.26

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La visione Psicosomatica

I  significati del termine Psicosomatico

Il vocabolo psicosomatico fu coniato nel 1818 dal medico psicologo J.C. Heinroth, che aspirò a raggruppare in un unico pensiero la dualità  mente-corpo. Quattro anni dopo, nel 1822, il medico K.W. Jacobi propose il termine somato-psichico per sottolineare l’influenza delle esperienze corporee sull’unità psichica.  In entrambi i casi si avvertiva l’esigenza di riunire in un’unica essenza i concetti di psiche e soma, che per  lunghi anni erano stati considerati separati. Con il tempo la parola «psicosomatico» è stata utilizzata nei contesti più disparati, così da divenire emissario di concetti come quello di «stress[i]» o di «qualità di vita», che troppo spesso sono stati utilizzati in modo superficiale rischiando di eluderne il significato scientifico. Per tanto, è di fondamentale importanza, chiarire almeno alcuni dei significati che il termine assume quando viene utilizzato in contesti definiti di carattere clinico o di ricerca. Quando in passato si parlava di psicosomatica ci si riferiva ad essa solo in relazione a quelle malattie organiche la cui causa era rimasta oscura e per le quali si pensava potesse esistere una “genesi psicologica”. Oggi è largamente condivisa l’accezione di psicosomatica come scienza che pone in relazione la mente con il corpo, ossia il mondo emozionale ed affettivo con il soma, occupandosi nello specifico di rilevare e capire l’influenza che l’emozione esercita sul corpo e le sue affezioni. Pertanto, corpo e mente non sono più considerati come due componenti separate ma due parti, in continua influenza reciproca, di un tutt’uno:  l’uomo nella sua unità somato-psichico.  In ambito medico è ormai largamente condivisa l’idea che il benessere fisico abbia una sua influenza su sentimenti ed emozioni e che a loro volta questi ultimi abbiano una certa ripercussione sul corpo. Non a caso il vecchio concetto di malattia intesa come “effetto di una causa”, è stato sostituito con una visione multifattoriale secondo la quale ogni evento (e quindi anche una affezione organica) è conseguente all’intrecciarsi di molti fattori, tra i quali sta assumendo sempre maggior importanza il fattore psicologico. Si ipotizza inoltre, che quest’ultimo, a seconda della sua natura, possa agire favorendo l’insorgere di una malattia, o al contrario favorendone la guarigione. E’ possibile distinguere malattie per le quali i fattori biologici, tossico-infettivi, traumatici o genetici hanno un ruolo preponderante e malattie per le quali i fattori psico-sociali, sotto forma di emozioni e di conflitti attuali o remoti, sono determinanti. In questo senso l’unità psicosomatica dell’uomo non viene persa di vista e i sintomi o i fenomeni patologici vengono indagati in modo complementare da un punto di vista psicologico e fisiologico.     Si parla di psicosomatica non solo come prospettiva con la quale guardare l’evento patologico, ma anche in relazione a sintomi somatici fortemente connessi alle emozioni e in relazione alle cosiddette vere e proprie malattie psicosomatiche. Per quanto riguarda i sintomi psicosomatici, essi, pur non espletandosi in vere e proprie malattie, si esprimono attraverso il corpo, coinvolgono il sistema nervoso autonomo e forniscono una risposta vegetativa a situazioni di disagio psichico o di stress.     Al contrario, sono considerate vere e  proprie malattie psicosomatiche quelle alla quali classicamente si riconosce una genesi psicologica (o quantomeno in buona parte psicologica) ed in cui si realizza un vero e proprio stato di malattia d’organo con segni indiscutibili di lesioni.               Quali sono i disturbi e le malattie psicosomatiche? La varietà dei modelli interpretativi consente solo in modo approssimativo di elencare e classificare le malattie e i disturbi psicosomatici. In ogni caso le malattie che storicamente sono state sempre interpretate come psicosomatiche sono l’ipertensione arteriosa, l’asma bronchiale, la colite ulcerosa, l’ulcera gastro-duodenale e l’eczema. Negli ultimi anni questo elenco si è andato via via infoltendo fino a comprendere: i disturbi alimentari che si evidenziano intorno ai due eccessi rappresentati dall’anoressia e dalla bulimia con conseguente obesità; le malattie e i sintomi psicosomatici a carico del sistema gastrointestinale dove tra le malattie organizzate c’è, oltre alla colite ulcerosa e all’ulcera gastro-duodenale, la rettocolite emorragica, mentre tra i disturbi psicosomatici sono presenti la gastrite cronica, l’iperacidità gastrica, il colon irritabile o spastico, la stipsi, la nausea e il vomito, la diarrea (da emozione, da “esami”); malattie a carico del sistema cardiovascolare ad esempio le aritmie, le crisi tachicardiache, le coronopatie (angina pectoris, insufficienza coronarica, infarto) l’ipertensione arteriosa essenziale, la cefalea emicranica, la nevrosi cardiaca; malattie relative al sistema cutaneo ad esempio la psoriasi, l’eritema pudico (rossore da emozione), l’acne, la dermatite atopica, il prurito, la neurodermatosi, l’iperidriosi, l’orticaria, la canizie, la secchezza della cute e delle mucose, la sudorazione profusa; malattie relative al sistema muscolo scheletrico (crampi muscolari, torcicolli, cefalee), malattie relative al sistema genitourinario ad esempio dolori mestruali, disturbi minzionali, enuresi, impotenza e malattie e i sintomi psicosomatici relativi al sistema endocrino ad esempio, iper o ipotiroidismo, ipoglicemia, diabete mellito.   In conclusione si può affermare che le malattie somatiche sono quelle che più strettamente realizzano uno dei meccanismi difensivi più arcaici con cui si attua una espressione diretta del disagio psichico attraverso il corpo. In queste malattie l’ansia, la sofferenza, le emozioni troppo dolorose per poter essere vissute e sentite, trovano una via di scarico immediata nel soma (il disturbo); non sono presenti espressioni simboliche capaci di razionalizzare il disagio psicologico e le emozioni, pur essendo presenti, non vengono percepite. In genere il paziente psicosomatico si presenta con un buon adattamento alla realtà, con un pensiero sempre ricco di fatti e di cose e povero in emozioni. Per meglio chiarire si tratta di un paziente che difficilmente riferisce sentimenti quali rabbia, paura, delusione, scontentezza, insoddisfazione. Spesso si tratta di pazienti che hanno difficoltà a far venire alla luce emozioni, che separano dalle cose ogni elemento di fantasia. Tutte le loro capacità difensive tendono a tener lontani contenuti psichici inaccettabili, a costo di distruggere il proprio corpo. In questo senso una persona, incapace di accedere al suo mondo emotivo, potrebbe non percepire rabbia, frustrazione o stress per una difficile condizione lavorativa e neppure immaginare una possibile connessione tra la sua “ulcera” e le emozioni o i vissuti relativi al suo lavoro. Anche se tali caratteristiche non sono sempre presenti in assoluto in quelli che presentano una patologia psicosomatica, sembra che comunque permanga, sempre, in queste persone una parte dell’io che tende a funzionare in questo modo.

Psicosomatica secondo una prospettiva sistemica

Prima di addentrarci nello specifico della trattazione sulla psicosomatica, per comprendere e contestualizzare concetti ricchi di significato,  dobbiamo  analizzare, in una visione di insieme, l’approccio sistemico. La teoria dei sistemi si sviluppa nella metà degli anni ’50, in seguito agli studi di ricercatori come Batterson, Watzlawick, Jacksone e Harley. In questi anni il modello meccanicistico  di causalità lineare viene superato dal modello di causalità circolare. Nel primo il rapporto tra causa ed effetto è inteso in senso lineare. Un esempio di questo tipo lo si trova nel modo in cui la medicina ha concepito l’origine di molte malattie. Un organismo estraneo (virus o batterio) penetra nel corpo umano provocando un’alterazione dei tessuti (l’infezione) che danneggia gli organi determinando una malattia. Secondo questa logica, la malattia può essere curata solamente risalendo alla causa ed eliminandola. Concepire gli eventi secondo una linearità di causa-effetto ha concesso alla medicina di progredire nello studio e nella cura di molte malattie, ma allo stesso tempo ha comportato una eccessiva semplificazione eludendo gli aspetti emotivi e relazionali dell’uomo.                                                                                                                           Durante il Novecento si è tentato di superare i limiti della visione lineare arrivando a concepire il processo casuale in senso multifattoriale. Secondo questa visione molti fattori vengono considerati le concause di un unico evento. Così, riprendendo l’esempio precedente, uno specifico agente infettivo può concorrere allo sviluppo della malattia, assieme ad altri di natura ereditaria, psicologica, sociale e ambientale. Il modello in questione impedisce una visione unitaria del problema, in quanto comporta una importante scissione di cause e concause. Verso la metà dello stesso Secolo le idee sul concetto di causa hanno fatto un notevole passo in avanti grazie al contributo di nuove teorie, come quelle sistemiche e cibernetiche le quali condividono una visione circolare del rapporto di causalità.  Secondo Ludwig von Bertalanffy, che propose la Teoria Generale dei Sistemi, un sistema può essere definito come una totalità organizzata e finalizzata, che supera il vecchio principio meccanicistico fondato sul “caso” e tende attraverso meccanismi di autoregolazione all’omeostasi e alla ricerca di un nuovo equilibrio, capace di aprire verso livelli di crescita sempre migliori e verso un ordine sempre più articolato. Seguendo questa prospettiva tutte le situazioni, comprese quelle umane possono essere considerate dei sistemi i cui componenti si determinano l’un l’altro senza che alcuno di essi assuma il ruolo di causa  o di effetto.  Così, un elemento influenza gli altri, ma è altrettanto influenzato da essi, contribuendo all’equilibrio dell’intero sistema. La causalità non è una caratteristica dei singoli componenti, ma è insita nella relazione che si stabilisce all’interno del sistema. Tale processo lo si può immaginare come un cerchio dove i vari elementi sono in rapporto tra loro.  Non interessa più scoprire una catena di cause ed effetti per arrivare all’origine degli eventi, ma studiare l’organizzazione e l’equilibrio di un sistema in una determinata situazione.  Nel caso della malattia l’importante è scoprire i vari fattori che interagendo tra loro provocano sofferenza e disadattamento.               Legato al concetto di causalità circolare è quello di retroazione o feedback. Mediante la retroazione un evento non solo genera altri eventi, ma è anche regolato da essi in modo retroattivo. La retroazione può essere positiva o negativa in base al cambiamento e alla trasformazione dell’equilibrio all’interno della relazione fra le parti.

Conflitti Psicologici

Secondo alcune scuole di pensiero lo svilupparsi del disagio psicosomatico è da imputare a conflitti ideo-affettivi profondi, a volte di natura molto remota. La malattia, dunque, non sarebbe altro che la “somatizzazione” di conflitti[ii] non risolti. Essa si sviluppa lentamente e si manifesta sotto la pressione di un evento-stimolo, quale una grossa frustrazione, un dolore affettivo, oppure come frutto delle pressioni dell’ambiente in cui l’individuo vive.                                               L’espressione del sintomo, sarebbe dovuta, secondo alcuni ricercatori, al meccanismo della regressione a forme di espressione tipiche di fasi precoci dello sviluppo. Infatti il bambino in età preverbale manifesta le sue emozioni esclusivamente attraverso il corpo: il bambino affamato piange, quello gratificato e appagato sorride. Nella fase evolutiva successiva, quella verbale, il bambino impara ad “esprimere” le sue emozioni. Così, mentre la “somatizzazione” riproporrebbe l’espressione del primo stadio evolutivo infantile (preverbale, quella in cui l’ansia si esprime a livello somatico), la nevrosi invece riproporrebbe l’espressione più avanzata del secondo stadio (verbale). Nella persona che somatizza, ansia, sofferenza, emozioni particolarmente forti o dolorose, trovano una via di scarico immediata nel corpo (il disturbo), per poter essere percepite. In genere l’individuo con disagi psicosomatici si presenta con un buon adattamento alla realtà, con un pensiero ricco di fatti e di cose ma povero di emozioni (Alessitimia). Molto spesso si tratta di un soggetto che ha difficoltà ad accedere al proprio vissuto emotivo, e perciò gli riesce difficoltoso percepire rabbia, frustrazione, stress, e quindi può non riuscire ad immaginare una possibile connessione tra il suo disagio corporeo e le emozioni o i vissuti relativi al suo lavoro o ad altre circostanze esistenziali.             Nell’insorgere della “somatizzazione”, è determinante l’ambiente in cui l’individuo vive: ambienti ansiogeni, aggressivi, competitivi o repressivi, sottopongono l’individuo ad uno stress continuo, determinando l’humus patologico che nutre la problematica psicologica personale sino a farla esplodere nella “somatizzazione”. La somatizzazione si struttura sostanzialmente in quattro fasi: all’inizio c’è un disagio psicologico, poi un blocco funzionale, segue una alterazione cellulare e infine la lesione anatomica. Nella “somatizzazione” il sintomo può a volte manifestare in forma simbolica il tipo di disturbo che esprime; ad esempio l’astenia può simboleggiare il dispendio di energie ad opera di un conflitto che lascia poche forze all’individuo; il vomito può indicare il rifiuto di una situazione inaccettabile; il prurito può rappresentare una forma di autoaggressività dovuta a sensi di colpa, ecc.

Specificità della malattia rispetto alla personalità

La Dunbar (1943) intendeva la specificità della malattia soprattutto rispetto alla personalità. Lavorando su una vasta mole di interviste anamnestiche ed attraverso l’uso della diagnostica psicodinamica, essa affermava di aver individuato delle significative correlazioni tra malattie e profili di personalità: tutti i pazienti affetti, per esempio, da ipertensione hanno caratteristiche di personalità simili. Secondo la Dunbar, dunque, esisteva una sorta di cliché caratteriale per ogni malattia psicosomatica. Il soggetto sofferente alle coronarie, ad esempio, era una persona che lavorava e lottava con fermezza, che aveva grande autocontrollo e tendeva al successo e al pieno raggiungimento degli scopi prefissi. Mentre il malato di ulcera peptica era un tipo iperattivo ed eccessivamente intraprendente.                                                                                                     Le teorie della Dunbar venivano criticate da più parti. Sul versante psicoanalitico esse erano accusate di superficialità, di valutare soltanto gli aspetti del comportamento osservabili a livello esteriore, ovvero di non cercare ed analizzare il materiale inconscio da cui, secondo la prospettiva psicodinamica, traggono origine le azioni umane. Per gli esponenti dell’approccio psicofisiologico invece, la Dunbar non aveva offerto una spiegazione della correlazione tra malattie psicosomatiche e tratti di personalità e non aveva dato nessuna indicazione su come questi ultimi possono dare inizio al disturbo e mantenerlo. Le idee della Dunbar tuttavia hanno avuto larga diffusione nella letteratura psicosomatica successiva. Esse sono rintracciabili nelle teorizzazioni di Friedman e Rosenman sulle associazioni tra disturbi e tipi di personalità, che si sono imposte con forza nel dibattito medico sino alla fine degli anni ’80. Allo stesso modo l’influenza della Dunbar è evidente nelle opere di Claus Bahnson sulle correlazioni tra personalità e cancro.

Specificità della malattia in corrispondenza delle emozioni

Franz Alexander era convinto che le correlazioni tra personalità e malattie evidenziate dalla Dunbar avessero soltanto un valore statistico e che sostanzialmente erano “misteriose, vaghe e casuali”. Al contrario, egli riteneva che “una distinta correlazione fra certe costellazioni emotive e certe funzioni vegetative” fosse oggettivamente dimostrabile al pari degli equivalenti fisiologici delle emozioni. Questi ultimi, infatti, erano stati sperimentalmente definiti dalle ricerche di Cannon ed Hess e delineavano, con precisione, l’esistenza di due categorie principali dell’emozione: preparazione alla lotta o alla fuga in condizioni di emergenza, piacere ed acquiescenza. Queste due categorie corrispondevano alle due configurazioni fondamentali di attività vegetativa: l’attivazione del sistema nervoso simpatico in condizioni di allarme e l’azione del sistema nervoso parasimpatico verso la riparazione, l’accrescimento dell’organismo e il ripristino metabolico delle sue energie. Al contrario del simpatico, preposto alla mobilitazione delle risorse corporee dell’organismo in vista di condizioni di emergenza, il parasimpatico presiede al controllo delle funzioni vegetative dell’organismo, come la digestione, l’escrezione, come i meccanismi alla base dei comportamenti sessuali. I disturbi psicosomatici, che Alexander definiva anche nevrosi vegetative, rappresenterebbero l’effetto della persistenza e della cronicizzazione dell’attivazione fisiologica tipica di una di queste due categorie emotive, dovuta ad uno specifico conflitto psichico che impedisce lo scarico delle emozioni in una azione esterna. Così, le patologie correlate alle emozioni legate alla lotta o alla fuga “sarebbero il risultato di inibizioni o di repressioni di impulsi ostili e di autoaffermazione”. Tali repressioni, infatti, impedendo l’estrinsecazione dei corrispondenti comportamenti di lotta o di fuga finiscono per indurre, con la cronicizzazione delle tipiche risposte vegetative di attivazione simpatica, l’alterazione delle funzioni di un organo dotato di fragilità costituzionale o acquisita. Ad esempio, alcune sindromi cardiache rappresenterebbero gli effetti dell’ansietà neurotica o della repressione della collera; mentre l’ipertensione essenziale, sarebbe il risultato di un incremento della pressione sanguigna mantenuto dall’attivazione del simpatico tipica delle emozioni di rabbia; allo stesso modo l’attivazione e il blocco dei sistemi neuro-endocrini legati alla lotta e alla fuga porta all’emicrania e l’ipertiroidismo, all’artrite reumatoide.

Le affezioni psicosomatiche dipendenti dal blocco delle emozioni connesse alle attività trofiche e riparative del parasimpatico erano, secondo Alexander, tutti i disturbi funzionali gastroenterici, l’asma, l’affaticamente cronico. Essi costituirebbero, infatti, l’esito di un fenomeno psicologico e quindi vegetativo di “ritirata” dall’azione e di disimpegno dall’adattamento ad un ambiente ostile. Per esempio, un individuo ansioso ed insicuro, sempre pronto a recedere dalla lotta e dai possibili pericoli, poteva mettere in atto, secondo Alexander, risposte viscerali paradossali, come la secrezione dei succhi gastrici, che si accompagnano a situazioni di sicurezza e di dipendenza, come l’alimentazione quando si è bambini. Reiterando tale atteggiamento e tale risposta fisiologica, il soggetto in questione, finirebbe per sviluppare un’ulcera peptica o la colite.

Il modello di Alexander presentava tuttavia alcune serie debolezze. In primo luogo i disturbi psicosomatici che egli pretese di descrivere, come l’emicrania, l’ipertensione, l’ipertiroidismo, l’artrite, la colite, l’asma avevano in realtà una natura eterogenea erano in effetti sindromi, piuttosto che entità nosologiche univoche. In questo senso cade l’idea stessa di specificità dei legami tra conflitti emotivi e disturbi somatici. In secondo luogo, l’ipotesi della specificità dei conflitti implica logicamente l’idea che possa sussistere una netta differenza tra i blocchi emotivi che innescano una patologia e quelli che la mantengono. Se vogliamo adottare la prospettiva di Alexander, è evidente che quando la malattia si manifesta l’individuo viene trasformato sia in senso fisiologico che psicologico.

Alexander credeva, inoltre, che i blocchi emotivi potessero innescare la malattia soltanto in presenza di una costituzionale vulnerabilità d’organo e di una situazione esterna scatenante. Egli aderiva così ad una concezione multifattoriale della malattia psicosomatica. Ciò era comunque in contrasto con l’idea forte della specifità dei conflitti per i disturbi psicosomatici. Quest’ultima, in Alexander e nella tradizione psicosomatica di quel periodo, si legava oltretutto alla rivendicazione di una identità particolare della patologia ex emotione che legittimava la stessa esistenza della medicina psicosomatica. Da un lato infatti in un modello multicausale della malattia, la specificità del conflitto viene a diluirsi e a smarrirsi tra le molte cause necessarie ma non sufficienti per provocare la condizione morbosa. Dall’altro la teoria della multifattorialità della malattia, peraltro avanzata con forza da molti psicosomatisti, contiene logicamente, finendo per annullarla, l’identità stessa della medicina psicosomatica, quest’ultima fondamentalmente radicata sull’idea dell’esistenza di malattie prodotte da cause psicologiche.

Bibliografia                                                                                                                       CANESTRERI R., GODINO A., “Trattato di psicologia”, CLUEB, Bologna, 2002.             DSM-IV, “Manuale Diagnostico e statistico dei disturbi mentali”, Masson,2004.

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TRENTIN R.; “Gli atteggiamenti sociali”, Bollati Boringhieri, Torino, 2002.

TROMBINI G.; BALDONI F., “Disturbi psicosomatici”, Il  Mulino, Bologna, 2001.


[i] Il concetto di stess è molto complesso. Una definizione più attuale indica lo stress umano e animale come uno «stato di tensione dell’organismo in cui vengono attivate difese per far fronte a una situazione di minaccia». Esso infatti può essere utilizzato come sinonimo di uno stimolo ambientale nocivo, ma anche la risposta dell’organismo a sollecitazioni diverse, sia di natura esterna che interna.  Si parla anche di stess positivo (eustess) quando comporta esperienze appaganti e maturative, o di stess negativo (distess) quando è fonte di difficoltà e sofferenze. E’ possibile suddividere gli eventi stressanti in due grandi categorie: eventi improvvisi, ben identificabili e limitati nel tempo, che comportano di solito conseguenze importanti per l’indivisuo(matrimoni, lutti, diventare genitori, separazioni, licenziamenti etc); ed eventi che riguardano le difficoltà incontrate nella vita di ogni giorno (nella famiglia, sul lavoro, nei rapporti sociali). Questo tipo di stess, definito anche stess quotidiano, è difficile da riconoscere e spesso sottovalutato. Secondo Harrè, Lamb, e Mecacci (1983) ci sono almeno tre modi  per affrontare lo studio e la definizione di stess. Il primo è quello di trattare il termine secondo la sua accezione di nocività ambientale: lo stess provocato da uno stimolo fisico eccessivo; un secondo tipo, che ha origine dalle ipotesi di Selye (1974), si riferisce al suo carattere bio-fisiologico (mediatore ormonale o nervoso). L’ultimo approccio che i tre studiosi riportano è maggiormente centrato sulla relazione dinamica dell’individuo con il suo ambiente, così come percepito ed elaborato dal soggetto stesso. Tale modello si definisce in termini di “processo” e fa capo agli studi di Lazarus (1976). Il primo studioso ad essersi occupato di stess dal punto di vista psicosomatico è stato Cannon, che aveva descritto come “risposta di allarme” un insieme di reazioni che predispongono l’organismo a comportamenti di attacco e fuga. Scoprì inoltre che non erano le uniche prodotte, bensì rappresentavano il primo di una serie di adattamenti e modificazioni fisiologici messe in atto per fronteggiare difficoltà provenienti dall’esterno. Cannon fu il primo anche a  coniare il termine omeostasi per designare l’equilibrio interno dell’organismo. Per ulteriori approfondimenti Cfr. Marocci G., “Abitare l’organizzazione”, Edizioni Psicologia, Roma, 1996

[ii] “Il Conflitto è dato da una situazione in cui forze di valore approssimativamente uguali ma dirette in senso opposto agiscono simultaneamente sull’individuo” (Lewin).

Ogni situazione conflittuale è teoricamente riportabile alla coesistenza di tendenze verso due differenti forme di comportamento. Il conflitto può essere: Conflitto tra due tendenza appetitive ; Conflitto tra una tendenza appetitiva e una avversativa verso lo stesso oggetto; Conflitto tra due tendenza avversative; Conflitto composto da  più tendenze appetitive ed avversative;  I Conflitti possono scaturire da diverse cause, possono essere conflitti di ruolo, conflitti personali, sociali, etc., ma alla base di tutti si muovono due forze contrarie. Certo è che il conflitto si riduce in relazione alla motivazione e all’associazione del rinforzo positivo che ha verso uno stimolo. Ma talvolta il conflitto è anche causa turbe sia generali sul comportamento che manifestazioni viscerali psicosomatiche. A proposito del conflitto dobbiamo citare la teoria della dissonanza cognitiva di Festinger e notare come si può ridurre o annullare un conflitto o un comportamento dissonante mediante l’acquisizione  di più informazioni sull’elemento dissonante, la modifica di un elemento cognitivo relativo all’ambiente fisico o quello psicologico, il cambiamento di uno degli elementi cognitivi  direttamente riferiti al comportamento. Per ulteriori approfondimenti Cfr. Canestrari R., Godino A., “Trattato di pscologia”, CLUEB, Bologna, 2002. Cfr. Trentin R. “Gli atteggiamenti sociali”, Bollati Boringhieri, Torino, 2002.

3. La famiglia psicosomatica

Mente e Corpo

Mente e Corpo

Dicotomia  Mente e Corpo

L’uomo è un’entità formata da corpo e mente. E’ un insieme inscindibile di queste due parti, aspetti diversi di una sola totalità. Corpo e mente non sono separati ma sono parte l’uno dell’altra. Tuttavia il corpo  ha un’essenza diversa dalla mente, può essere misurato nelle sue dimensioni spaziali, fotografato e pesato.  Si possono derivare, in modo scientifico, dati oggettivi delle sue funzioni, si possono analizzare i suoi fluidi e le sue secrezioni ed è possibile sezionarlo per studiarlo nelle sue componenti anatomiche.

Talvolta però, tutte queste conoscenze non si sono rivelate assolute e non sono state sufficienti per fornire una visione più precisa del corpo. Basti pensare che spesso  la percezione del nostro corpo muta da un momento all’altro e sembra non essere mai lo stesso. E’ sufficiente vivere un’esperienza diversa o un’emozione più intensa, che all’improvviso si manifesta un corpo che non riconosciamo come quello di partenza.

«L’esperienza umana oscilla continuamente tra la sensazione di avere e quella di essere il nostro corpo[i]»

Il concetto di corpo non è poi così disgiunto da quello di mente. Infatti, si ritiene che l’essere umano sia capace di una rappresentazione psichica del proprio corpo e questa funzione si sviluppa sin dalla nascita, mediante il rapporto madre-bambino.

Il corpo, ha una funzione fondamentale nella comunicazione. Il linguaggio non verbale può confermare e/o negare tutto quanto viene trasmesso con le parole.

Se il concetto di corpo è più chiaramente comprensibile in modo, semplice e unitario, quello di mente o psiche risulta essere più ambiguo e complesso. La parola psiche o mente rimanda a concetti non osservabili concretamente e difficile da descrivere, come le emozioni, i sentimenti, le fantasie e il pensiero.  Ed è proprio nella difficoltà di comprendere la mente, che l’uomo, per lunghi anni, si è percepito solo negli stimoli corporei.

Oggi, invece,  le emozioni svolgono un ruolo importante nel motivare e orientare il comportamento.

Infiniti esempi, tratti dall’esperienza umana, dimostrano che comunissimi fenomeni psicologici, come una leggera emozione di gioia e/o di paura, si ripercuotono nell’organismo causando tachicardia; di contro, un banalissimo disturbo organico, come il raffreddore, si ripercuote sull’umore creando notevole irritazione. E, ancora: un succedersi di pesanti e particolari tensioni emotive può provocare, in alcuni individui, malattie come l’ulcera gastrica o l’ipertensione. L’approccio psicosomatico è un tentativo di vedere le persone nella loro interezza e, soprattutto, di comprendere che cosa loro succede. Possiamo dire che la medicina psicosomatica è nata per contrapporsi alla tradizione meccanicistica e riduzionista della filosofia ottocentesca, che separava nettamente la vita psichica e la malattia, essendo quest’ultima considerata sempre di origine organica, dovuta cioè alla lesione di qualche parte del corpo. La medicina psicosomatica si fonda sul concetto  chiave che la persona rappresenta una inscindibile unità biologica, fatta di corpo e mente, cioè di fattori psichici ed emotivi che svolgono un ruolo determinante nello sviluppo delle malattie organiche. In generale, quindi, possiamo dire che la psicosomatica è lo studio dei rapporti intercorrenti tra mente e corpo. Essa parte dalle premesse che ogni malessere di natura psicologica abbia una ripercussione a livello somatico, e che viceversa una malattia organica comporti una alterazione della sfera psicologica. Al di là delle varie interpretazioni è sicuramente un modo nuovo di concepire l’uomo malato, una modalità che non considera solo l’organo malato da “curare”, ma la globalità  psichica, sociale e culturale dell’essere umano, per cui l’organo rappresenta solo l’espressione ultima di un disturbo.

Il dualismo Cartesiano

Il rapporto tra soma e psiche è un discorso piuttosto antico. I primi studi sull’unità psicosomatica dell’uomo, risalgono alla scuola ippocratica. La dottrina ippocratica si propone di liberare la medicina da ogni concezione magica e religiosa, per farne una scienza basata su un metodo sicuro e razionale di diagnosi e di terapia. La salute o la malattia dell’organismo umano sono il risultato di un’armonia o disarmonia interna dell’organismo, legata all’equilibrio di quattro umori che esso contiene (sangue, flegma, bile gialla, bile nera) la cui diversa proporzione determina anche il temperamento dell’individuo e l’adeguamento dell’organismo all’ambiente climatico, geografico e politico sociale. In base a ciò, l’approccio terapeutico doveva ristabilire la perdita di armonia che deve normalmente esistere in ciascun individuo. Con Platone (primo sostenitore della posizione dualistica) si introduce la distinzione tra anima e corpo, sostanze indipendenti e irriducibili l’una all’altra. L’anima era considerata immortale e continuava a vivere dopo la morte. Per Aristotele, che rifiuta il dualismo platonico, l’anima conferisce la forma al corpo che da esso non può essere separata. L’anima, quindi, diventa il principio vitale del corpo. Con Cartesio, il dualismo (mente – corpo) anziché conoscere un rinnovamento subisce una potente cristallizzazione. La mente ed il corpo erano considerate entità completamente separate; il corpo era una macchina governata dalla mente e seppure corpo e spirito erano divisi e separati, esercitavano un’influenza reciproca. Vedere ancora oggi applicata questa posizione culturale, cioè diversificare nettamente psiche e soma nell’affrontare una patologia, è l’errore più grande, perché come già evidenziato, il corpo e la mente non sono separati ma sono parte l’uno dell’altra, aspetti diversi ma costitutivi di una totalità. In definitiva è un approccio scientifico che congloba la totalità dei processi integrati di rapporto tra il sistema somatico, psichico, sociale e culturale. Per gli orientamenti scientifici tradizionali invece il concetto psicosomatico è una conquista recente, perché a causa di pregiudizi scientifici essa era ancorata alla concezione che l’uomo fosse un prodotto materiale e che la malattie fosse perciò solo una realtà organica. Esistono, tuttavia, reazioni e disturbi psicosomatici. La reazione psicosomatica è episodica, magari momentanea, e scaturisce da un evento stimolo: per esempio nella tachicardia da spavento c’è una evidente alterazione del battito cardiaco, che è solo momentaneo e che scompare appena passa la reazione emotiva. Nei disturbi psicosomatici esiste invece un’alterazione duratura, funzionale oppure organica. Nel primo caso l’organo non è leso, ma si comporta come se lo fosse: un esempio tipico è la nevrosi cardiaca, in cui esistono tutti i sintomi dei disturbi cardiaci, ma il referto clinico appare negativo. Nella malattia organica esiste una lesione all’organo in questione: un esempio è l’ulcera gastro – duodenale, che oltre ai sintomi comporta un referto anatomo – patologico ben preciso ed individuabile.


1.Mente Corpo

[i] Trombini G.; Baldoni F., “Disturbi psicosomatici”, Il  Mulino, Bologna, 2001. Cit. p. 16.

2.La visione Psicosomatica

Bibliografia                                                                                                                       CANESTRERI R., GODINO A., “Trattato di psicologia”, CLUEB, Bologna, 2002.             DSM-IV, “Manuale Diagnostico e statistico dei disturbi mentali”, Masson,2004.

ERCOLANI M., “Malati di Dolore”, Zanichelli, Bologna, 2001.

GLEN O. GABBARD, “Psichiatria e psicodinamica”,Raffaello Cortina Editore, Milano, 2002.

KÜBLER-ROSS E.; “La morte e il morire”, Cittadella Editrice, Assisi,2005

LERMA M.,  Articolo CONVEGNO INTERNAZIONALE “I Pionieri della Terapia familiare” Roma 8/10 dicembre 2000 organizzato da Accademia di psicoterapia della famiglia di Roma, Istituto di terapia familiare di Firenze, Scuola romana di psicoterapia familiare di Roma, www.formazione.eu.com, 2007.

MAROCCI G., “Abitare l’organizzazione”, Edizioni Psicologia, Roma, 1996.

MINUCHIN S.; ROSMAN B. L.; BAKER L.; “Famiglie Psicosomatiche”, Astrolabio, Roma, 1980.

MINUCHIN S.; “Famiglie e terapia della famiglia”, Astrolabio, Roma, 1976.

NOLE’ A., DILORENZO M. , “L’Approccio Sistemico”, Dispensa del Corso di Specializzazione in Psicoterapia Relazionale, Potenza, 2007.

PELLEGRINO F.; “Psicosomatica”, Il Saggiatore, Milano, 1998.

TRENTIN R.; “Gli atteggiamenti sociali”, Bollati Boringhieri, Torino, 2002.

TROMBINI G.; BALDONI F., “Disturbi psicosomatici”, Il  Mulino, Bologna, 2001.

Ruoli lavorativi e ruoli familiari

Ruoli lavorativi e ruoli familiari

La crescente partecipazione delle donne nel mercato del lavoro Italiano mette in discussione i livelli di emancipazione femminile pur non implicando repentini cambiamenti nella distribuzione dei compiti domestici, nell’approccio tradizionale ai ruoli sociali, nelle asimmetrie di genere all’interno delle famiglie.

Nei paesi europei le madri occupate a tempo pieno dedicano alla cura dei figli e ad altri lavoratori familiari il doppio del tempo dei padri.

In particolare, in Italia il lavoro familiare è ancora «mal diviso»[1]: quello domestico è considerato responsabilità della donna, indipendentemente dal fatto che abbia un’occupazione extra-domestica più o meno impegnativa in termini di tempo e di coinvolgimento emotivo.

Recenti studi hanno constatato che il tempo dedicato al lavoro famigliare resta cospicuo[2], per cui la donna deve organizzasi, sia sul fronte lavorativo sia su quello familiare, ed elaborare strategie originali e creative per destreggiarsi tra risorse e vincoli.

La «doppia presenza» in famiglia e nel lavoro evidenzia i ruoli della donna come lavoratrice, moglie e madre che accumula un consistente ammontare di lavoro giornaliero.

Se si considera il lavoro extra-domestico, il 53 per cento delle donne in coppia con figli dichiara di lavorare più di 60 ore a settimana contro il 17 per cento dei padri.

La scarsa condivisione del lavoro familiare con il partner e il forte schiacciamento del tempo per sé che ne deriva per le donne, fa sì che il 58,5 per cento delle lavoratrici con figli fino a 13 anni sia insoddisfatta della fetta di tempo libero[3] riservata a se stesse.

L’asimmetria di genere nella distribuzione del lavoro familiare e della cura dei figli sembra diminuire nelle nuove generazioni, che fanno emergere segnali di novità per quel che concerne l’impegno paterno.

L’equiparazione è evidenziata dalla legge n.53 del 2000, che riconosce tanto alla madre quanto al padre, il diritto ad assentarsi dal lavoro per la cura del figlio ma, nonostante la normativa si sia posta come necessaria al fine del cambiamento, i freni culturali inducono la donna a sovraccaricarsi del lavoro familiare.

Infatti, lo stipendio della donna sposata è considerato un’integrazione di quello del marito e si ritiene logico che la donna abbandoni l’impiego qualora la famiglia debba trasferirsi o nell’eventualità di un avanzamento occupazionale del coniuge[4].

Ma le più forti difficoltà all’integrazione paritaria nel mercato del lavoro derivano dai sensi di colpa che nascono nella donna a seguito delle difficoltà di essere presenti nella crescita di figli.

Tale questione è rafforzata dall’insufficienza delle strutture sociali, che per di più non prevedono una flessibilità di orario adeguata alla maggiore differenziazione negli orari di lavoro e comportano rette di iscrizioni da assorbire in larga parte lo stipendio della madre.

Un’altra variabile che incide sulla presenza della donna nel mercato lavoro è la gestione e la cura degli anziani o dei parenti malati.

«Le strutture dedicate e l’assistenza domiciliare agli anziani e ai disabili sono poco diffuse e riservate soltanto ai casi in cui non vi sono familiari che possono prendersi cura di loro. Inoltre, lo Stato in Italia, più che fornire servizi alle famiglie, trasferisce loro redditi monetari sotto forma di sussidi e pensioni che aumentano il reddito familiare, ma scaricano una gran quantità di lavoro di cura sulla famiglia, cioè sulle donne sposate, che sono costrette a “restare in casa” o, se orientate al lavoro, a scaricarlo a loro volta su altre donne, parenti o salariate[5]

La carenza dei servizi sociali è indubbiamente uno dei principali ostacoli alla piena realizzazione occupazionale e di carriera della donna.

Oggi, in Italia, la famiglia[6] continua ad essere vista come il principale ammortizzatore sociale, e si insiste a vedere nella donna la principale responsabile della cura dei figli e degli anziani. Di conseguenza, si tralascia di attivare tutti quei servizi destinati alla gestione sociale, collettiva, di tali problemi e si predilige dare contributi a chi ne ha bisogno. Così, invece di costruire case-famiglia per anziani o per i soggetti diversamente abili, si preferisce aiutare economicamente la donna, in modo da integrare con un sussidio, peraltro relativamente basso, il mancato introito da lavoro.

Esistono, inoltre, differenze territoriali: le donne del Nord Est vivono una situazione di maggiore sviluppo dell’occupazione femminile, maggiore diffusione del part-time[7], maggiore diffusione di lavoro a tempo determinato, minore consistenza delle reti di aiuto informale e minore diffusione sia dei servizi sociali che delle   baby-sitter.

In sostanza, le donne lavoratrici del Nord-Est sono molto sovraccaricate, a seguito del lavoro di cura ed extra-domestico, ma le loro condizioni di lavoro sono relativamente più flessibili (e quindi più agevoli) rispetto a quelle delle donne lavoratrici del Sud. Queste ultime sono molto svantaggiate su tutti i fronti: quello del lavoro, delle reti e dei servizi. Sono cioè meno presenti sul mercato del lavoro e nel momento in cui lavorano sono generalmente meno supportate, pur in presenza di maggiori carichi familiari e di un numero medio di figli più alto, devono farsi carico maggiormente dei propri genitori anziani in peggiori condizioni di salute.

Ovviamente in situazioni in cui il lavoro di cura e di servizio[8] permane ad appannaggio femminile si ignora la propensione della donna ad affermarsi nella sfera lavorativa, e le si attribuisce in modo scontato la vocazione prioritaria di accudire la famiglia.

Al disagio psicologico femminile si affianca quello economico e le donne che si dedicano al lavoro domestico, pur costituendo una risorsa per il patrimonio familiare[9], sono private di un compenso che potrebbe aiutare ciascuna di loro a non vivere in una situazione da eterne «mantenute».

Complessivamente va riconosciuto alla famiglia anche la possibilità di essere una risorsa, in particolar modo se la donna fa un investimento rispetto a quest’ultima e segue le richieste familiari su un alto grado di flessibilità.

Fino a un decennio fa alcune donne sono state troppo rigide alle responsabilità familiari per far fronte alle richieste della flessibilità del mercato del lavoro. Altre, invece, sono state troppo flessibili rispetto alla domanda del lavoro familiare per rispettare le rigidità dei curriculum lavorativi. Oggi quasi tutte hanno recepito che una via di mezzo è la soluzione ideale per non rinunciare alla realizzazione professionale. Così investire nel lavoro conciliando la vita famigliare, seppur implica l’impegno su più fronti, permette di dimostrare le abilità fisiche e psichiche femminili nel riuscire a destreggiarsi in circostanze globalmente diverse.

Bibliografia:

Del Rio, G. “Stress e lavoro nei servizi”, NIS, Roma 1990;

Reyneri E., “Sociologia del mercato del lavoro”, il Mulino, Bologna, 2002

Saraceno C.,“Il lavoro mal diviso”, De Donato, Bari,1980

Saraceno C., Beccalli B., “Donne e uomini nella divisione del lavoro”, FrancoAngeli, Milano,1991

Saraceno C.,La famiglia come soggetto economico e il patrimonio familiare. Ovvero della divisione del lavoro tra i sessi e le sue conseguenze per uomini e donne”, Sociologia del lavoro, n. 43.

Trombini “Come logora curare. Medici e psicologi sotto stress”,Zanichelli, Bologna, 1994


[1]Cfr. Saraceno C.,“Il lavoro mal diviso”, De Donato, Bari,1980.

[2]Cfr.Saraceno C.,La famiglia come soggetto economico e il patrimonio familiare. Ovvero della divisione del lavoro tra i sessi e le sue conseguenze per uomini e donne”, Sociologia del lavoro, n. 43.

1991

[3]Per quanto concerne l’insoddisfazione: il 78,6 per cento delle donne che lavorano riferisce di essere molto insoddisfatta della dimensione lavorativa; il 64,4 per cento esprime il medesimo giudizio nei confronti della condizione economica, l’88,6 per cento riguardo le condizioni di salute e l’86,8 per cento rispetto alle relazioni amicali. Inoltre, la maggioranza (il 58,5 per cento) delle donne lavoratrici in coppia con figli si dichiara insoddisfatta per il tempo libero, per cui lo schiacciamento dei tempi di vita dato dal carico familiare accanto a quello extra domestico non incide soltanto sulla soddisfazione rispetto al lavoro ma anche sulla percezione di non avere abbastanza per sé e per il proprio tempo libero.

[4]A proposito dell’interruzione o riduzione dell’impegno lavorativo femminile, in presenza di eventi familiari, Marshall sostiene che questa discontinuità della prestazione potrebbe essere una risorsa. Periodi di sospensione possono essere seguiti da fasi di maggiore impegno con risultati migliori dal punto di vista professionale. Anche la minore adesione ai fini dell’impresa, che le donne esibirebbero e che è spiegata come la conseguenza del doppio lavoro, è indicata come una risorsa che mette a riparo dagli stress legati alla carriera che favorisce comportamenti innovativi.

Cfr. Marshall L., «Re-visioning carcers concepts. A femminist invitation», Cit.in Bonazzi G., Saraceno C., Beccalli B., “Donne e uomini nella divisione del lavoro”, FrancoAngeli, Milano,1991, e Gallos J. U., «Exploring women’s development: Implications for carter theory, practice and reserach»,in Bonazzi G., Saraceno C., Beccalli B., “Donne e uomini nella divisione del lavoro”, FrancoAngeli 1991

[5] Reyneri E., “Sociologia del mercato del lavoro”, il Mulino, Bologna, 2002, Cit p.109.

[6] La famiglia in quanto forma di organizzazione sociale funziona complessivamente come elemento determinante dei processi retributivi nelle società di welfare. Il welfare è un sistema di protezione sociale di cui dispongono tutte le nazioni che fanno parte dell’Unione Europea. Si fonda su filosofie politiche-sociali diverse che, pur oscillando dai modelli universalistici, in cui tutti i cittadini vengono presi in carico allo stesso modo, ai modelli occupazionali,in cui si distinguono categorie diverse di occupazione, tende a fornire all’intera comunità una tutela di base su problemi quali: le condizioni di lavoro, la salute, la scolarizzazione almeno fino all’età dell’obbligo, a garantire il minimo vitale per i più poveri ecc.

[7]La definizione di part-time è presente all’interno del paragrafo 2, capitolo 3, Cit.p.94.

[8] Il lavoro di servizio è quell’attività basata sull’attivazione, il mantenimento e la propagazione di forma di aiuto alle persone sul piano fisico, comunicativo, psichico. Comprende attività svolte dentro e fuori il mercato del lavoro: in modo gratuito principalmente all’interno della famiglia e in modo retributivo nel settore dei servizi, pubblici e privati.

Il lavoro di cura è un tipo di lavoro di servizio rivolto alle persone per il loro benessere fisico e psichico. Chi fa questo lavoro, essendo continuamente in contatto prolungato con clienti in situazione di particolare urgenza e gravità, può cadere nella “sindrome del burnout” ovvero del “bruciarsi dell’operatore”. Tale sindrome si manifesta con una progressiva perdita di idealismo, energia, motivazione e esaurimento emotivo. Cfr.Del Rio, G. “Stress e lavoro nei servizi”, NIS, Roma 1990; Sarchielli G., Ricci Bitti P., “Burnout e stress lavorativo nelle professioni di aiuto”, in Trombini “Come logora curare. Medici e psicologi sotto stress”,Zanichelli, Bologna, 1994.

[9] Il patrimonio familiare si può definire come la combinazione di capacità di produzione di reddito e di risparmi/investimenti.

Psicoterapia Familiare

Che cos’è la Psicoterapia Familiare?

La psicoterapia familiare assolve al compito di far funzionare le risorse  della famiglia, mediante incontri con tutta la famiglia, di coppia o individuali.  Uno degli obiettivi di ogni terapia è ridurre e risolvere lo stato di sofferenza del nucleo familiare.

Tali interventi mirano alla soluzione delle difficoltà di apprendimento scolastico, dello sviluppo psicofisico, della socializzazione dei figli e alla gestione delle problematiche  di coppia o individuali degli adulti.

La Psicoterapia familiare si interessa degli intricati rapporti, dei sistemi, delle alleanze che ci sono nella famiglia, considerando le dinamiche familiari in relazione a  vaste aree psicologiche fra cui ricordiamo: la disabilità fisica, cognitiva e psichiatrica, l’adolescenza, il rapporto itergenerazionale,  la psicosomatica e le relazioni sociali.

Qual è il ruolo del terapeuta?

Per descrivere il ruolo del terapeuta mi piace usare la metafora della lente di Minuchin: un terapeuta ad orientamento familiare si può paragonare ad un tecnico con lenti a “zoom”, che può permettersi di ingrandire un particolare ma può anche osservare un campo più ampio. Il terapeuta si associa alla famiglia, usando se stesso, con lo scopo di modificare la parte dell’organizzazione disfunzionale; in tal modo fa esperire ai membri della famiglia posizioni nuove che mettono in gioco diverse emozioni. Il ruolo di terapeuta deve essere attivo, direttivo e prescrittivo. Gli interventi sono fondati sull’aspettativa di un effetto pragmatico della propria comunicazione (verbale o non verbale), basata su una determinata ipotesi formulata sulle modalità di funzionamento del sistema familiare. La terapia familiare  tende a mettere i terapeuti in grado di trovare nuove soluzioni ai vari problemi che si trovano di fronte nella loro professione. L’obiettivo principale è creare nuove connessioni alternative tra azioni e convinzioni all’interno dell’interazione familiare, affinché possano nascere quei cambiamenti sostanziali che generano nuove modalità di relazionare. Il terapeuta cerca così da un lato di seguire da vicino le retroazioni restando collegato alla famiglia, dall’altro però la sfiderà con domande, prescrizioni e compiti che possano corrompere più o meno apertamente il sistema, portandolo a nuovi equilibri.

Perché la famiglia?

La famiglia  è composta da più persone legate tra loro da vincoli biologici, affettivi, relazionali, in cui ognuno interagisce con l’altro creando un proprio modo di essere. Il nucleo familiare è il fondamento di base di ogni organizzazione sociale, che in continuo movimento con la storia e la società delinea tratti  dei soggetti che vi appartengono. E’ la matrice dell’identità, oltre che il luogo della trasmissione culturale di valori, tradizioni, motivazioni, durante tutto il ciclo vitale dell’individuo. Pertanto, è sottoposta a continui cambiamenti interni ed esterni, che deve affrontare pur mantenendo la sua continuità e accomodandosi alla società in trasformazione. Il sistema famiglia sostiene i suoi membri, che affrontano, quotidianamente, situazioni nuove e spesso difficili e quando la famiglia non riesce ad attuare il cambiamento e si blocca ad una tappa del ciclo vitale, interrompendone l’evoluzione, possono nascere problemi.    (Minuchin, 1976)

Bibliografia:

Minuchin S., “ Famiglie e terapie della famiglia”, Astrolabio, Roma, 1976.

Il legame Fraterno

Il Legame Fraterno

La famiglia è l’unità indispensabile di ogni organizzazione sociale, dà forma, cornice e colore agli individui, che vi appartengono. Ha un significato dinamico e funziona con il riconoscimento delle differenze individuali e di ruoli tra i suoi componenti.  Da sempre, la famiglia riveste una funzione fondamentale nella trasmissione culturale di valori, abilità, credenze, motivazioni, durante tutto il ciclo vitale dell’individuo. Ha il compito sociale e psichico ed in particolare un rapporto con l’identità di genere, la procreazione, la regolamentazione della sessualità, della paternità e di diritti ad essa connessi; essa inoltre regola il passaggio alla condizione adulta e veicola non solo le norme sociali ma anche quelle emotive (Minuchin, 1976).

Con lo scorrere dei secoli In Europa, abbiamo assistito, all’estendere e allo scomparire di diversi tipi di famiglie. Siamo passati dalle famiglie allargate, multiple e complesse; alle famiglie nucleari dove si registra la presenza di un solo figlio.

Il fenomeno si complica ancor più, quando si parla di famiglie ricostruite[1], dove è frequente la presenza di fratelli senza alcun legame di sangue.

A fronte di questa situazione nasce un interrogativo: con quale caratteristiche si presenta oggi il legame fraterno?

La relazione fraterna è un vincolo, cioè un legame di dipendenza e di connessione dei figli-fratelli, che inizia con la nascita e dura tutto l’arco della vita.

Il rapporto tra fratelli e sorelle, in più, permette di vivere parallelamente i rapporti familiari. Ciò implica la possibilità di confrontarsi e competere, oltre che l’opportunità di divertirsi e svolgere attività insieme. Comporta, inoltre, la possibilità di stringere alleanze e misurarsi con la generazione dei genitori. Dunque, la presenza di fratelli e sorelle crea ampi spazi di libertà e moltiplica la rete di rapporti familiari.

Non è detto però, che il  rapporto tra fratelli debba essere sempre di collaborazione, solidarietà e di sostegno reciproco, talvolta il legame fraterno si istaura su rapporti di competitività, sfida e odio[2].  Spesso conosciamo fratelli che di famigliare sembrano non avere niente e ci rendiamo conto che, pur crescendo nella stessa famiglia si sono differenziati creando un rapporto unico ed irripetibile con i propri genitori rispetto alle proprie peculiarità.

Ciò  che accomuna i fratelli è «l’incastro di coppia coniugale genitoriale»[3], ossia la relazione dei patner con la famiglia di origine, che assume una funzione fondamentale di mediazione per ciò che concerne il modo con cui viene trattato tutto quello che passa tra le generazioni. Difatti, avvenimenti quali malattie, lutti, disoccupazione, che provano duramente la famiglia, sono comunque gestiti mediante la relazione coniugale-genitoriale.

I fratelli sono, così,  i testimoni del legame familiare messo alla prova, quotidianamente, da eventi difficili da superare (E. Scambini, 2000).

In relazione all’età evoluta, il tema dei fratelli  si sviluppa lungo tutto l’arco di vita. Per i bambini avere dei fratelli in casa è un vero «laboratorio sociale»[4], ciò implica l’occasione nella quale il bambino, ha modo di scoprire vari tipi di relazioni interpersonali che si ritroverà, poi, a vivere da adulto. Vale la pena ricordare in primo luogo, lo sviluppo delle capacità di cooperazione: tra fratelli le attività spontanee di collaborazione sono naturali e scontate. In tal modo, il bambino impara più facilmente a prendere in considerazione il punto di vista degli altri, a superare il proprio egocentrismo, a portare aiuto ad altri quando sono in difficoltà.

Altrettanto importanti sono tutte le attività che riguardano la competizione e la negoziazione. Vivere con gli altri significa anche saper affrontare le diversità e saper gestire i contrasti. Fratelli e sorelle costituiscono un allenamento alla vita anche in questa prospettiva, in quanto devono imparare a comportarsi con giustizia e a superare eventuali conflitti.

Tutti questi apprendimenti risultano più difficili e più rallentati per i figli unici, poiché essi devono sopperire a queste carenze in famiglia con esperienze fatte in ambito scolastico.

I figli unici sviluppano precocemente un modello di adattamento al mondo degli adulti, allo stesso tempo manifestano difficoltà nello sviluppo dell’autonomia e dell’abilità di condividere, cooperare e competere con gli altri.

Nell’ età adulta il legame fraterno diviene ancora più importante, in quanto la consapevolezza dell’esistenza dei fratelli costituisce una possibilità di certezza[5]. Con il fratello adulto si condivide l’esperienza dell’accudimento dei genitori anziani e si esperiscono emozioni nuove.

In conclusione, possiamo affermare, che il legame fraterno è una risorsa di ciascuna famiglia. In particolare, è un potenziale mezzo di conoscenza della famiglia stessa, al quale spesso, molti terapeuti familiari ricorrono per districare e rendere più semplici il complesso sistema familiare.

Bibliografia:

Cicirelli V., “Siblings as caregivers for impaired elders”,in Scambini E., Cigoli V.,“Il famigliare. Legami, Simboli, e Tradizioni”, p.33

Corman L., “Psicopatologia della rivalità fraterna”, Astrolabio, Roma, 1971.

Minuchin S., “ Famiglie e terapie della famiglia”, Astrolabio, Roma, 1976.

Scambini E., Cigoli V., “Il famigliare. Legami, Simboli, e Tradizioni”, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2000.


[1] La struttura di queste famiglie è molto complessa, in quanto all’origine c’è una separazione (morte o divorzio). Il fatto che nasca dallo spegnersi di un rapporto precedente,  rende delicato il ruolo del terzo coniuge. Queste famiglie vivono un presente e progettano un futuro ma hanno un passato assai complicato. Cfr. Minuchin S., “ Famiglie e terapie della famiglia”, Astrolabio, Roma, 1976.

[2] Corman L., “Psicopatologia della rivalità fraterna”, Astrolabio, Roma, 1971.

[3] Cfr. Scambini E., Cigoli V., “Il famigliare. Legami, Simboli, e Tradizioni”, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2000

[4] Cfr. Minuchin S., “ Famiglie e terapie della famiglia”, Astrolabio, Roma, 1976.

[5] Cfr. Cicirelli V., “Siblings as caregivers for impaired elders”,in Scambini E., Cigoli V.,“Il famigliare. Legami, Simboli, e Tradizioni”p.33

La metafora con i bambini

La stanza dei giochi: il bambino in terapia familiare
Parlando di metafore, la tematica prende forma e ci trasporta ancor più quando si utilizzano con i bambini. La metafora con i bambini manifesta tutta la sua efficacia nella cornice della spontaneità, ed è per i piccoli un valido linguaggio di comunicazione, capace   di mediare il cambiamento in modo gradevole e fantasioso.  Inoltre, le metafore sono un modo per fornire ai piccoli pazienti esperienze, che potrebbero equipaggiarli di abilità adeguate in situazioni di vita reale. Non solo, l’uso della metafora terapeutica per bambini, aiuta a costruire capacità di problem solving ma favorisce, anche, la consapevolezza di emozioni vissute e accresce l’intelligenza emotiva.  Nell’intervento con i bambini il terapeuta deve fare molta attenzione a non porre limiti ai processi di pensiero del piccolo e considerare che il setting terapeutico familiare con un bambino è diverso rispetto a quello con una famiglia di soli adulti.   A proposito, la stanza di terapia con un bimbo si configura come “stanza dei giochi”, luogo dove il piccolo può manifestare se stesso senza alcuna paura. Ed è qui, che giochi, colori e oggetti di vario genere, misti ad un efficace rapporto terapeutico costituiscono la base per un buon punto di partenza della terapia.
Obiettivo principale del terapeuta, quando è nella stanza con il bambino, è di entrare in contatto con il pensiero del piccolo, esplorare la stanza per conoscersi a vicenda (nel modo particolarissimo in cui lo sanno fare solo i bambini) e dialogare mediante elementi giocosi e/o divertenti, per affrontare argomenti anche molto seri.  La modalità di dialogo tra il terapeuta e il bambino è il principio basilare della comunicazione.
Affinché una comunicazione sia più efficace, il terapeuta deve accomodarsi al piccolo paziente, coordinarsi sui tempi, le pause, il tono e ritmo della del linguaggio bambino. Inoltre, per il terapeuta, che deve avvicinarsi al piccolo paziente, è di fondamentale importanza rivivere i momenti di spontaneità, le fantasie, le gioie di quando si era bambini e utilizzarli come validi strumenti terapeutici. Guardare al bambino che abbiamo dentro è l’elemento sul quale si costruisce il rapporto terapeutico. Nell’ultimo decennio varie ricerche hanno indagato sull’uso terapeutico della metafora con i bambini e si è venuti alla conclusione, che le metafore possono essere utilizzate per:
· Catturare l’attenzione;
· Stimolare il desiderio di apprendere;
· Suscitare l’aspettativa di apprendere;
· Preparare a ciò che verrà in seguito;
· Conoscere le emozioni;
· Evitare il confronto diretto con argomenti potenzialmente angoscianti,
· Ravvivare l’immaginazione;
· Sollecitare con parole e nozioni nuove;
· Arricchire le conoscenze del bambino.
La medesima ricerca ha sottolineato, che non tutti i bambini rispondono al “potere” delle metafore. Alcuni, vuoi per la loro età cronologica, vuoi per lo sviluppo cognitivo possono pensare in modo molto concreto e poco astratto. Per tanto sta nel terapeuta essere un ottimo osservatore e conoscere il più possibile l’universo del piccolo, per rendere la metafora efficace nel favorire il cambiamento e la crescita.
Bambini: fantasia e metafore
“I bambini sono la migliore palestra per avvicinarci alla metafora”
I bambini sono, in genere, molto ricettivi alle metafore e seppure inconsciamente hanno grande dimestichezza ad utilizzarle. Spesso preferiscono ascoltare storie, raccontarle o rappresentarle graficamente.  Nella nostra cultura, gran parte dell’identità infantile è costellata da metafore. Storie, fiabe, cartoni animati, eroi dei film, sono il cibo quotidiano di cui si nutrono bambini e adolescenti. Anche la funzione parentale di modello del ruolo, può essere vista come procedimento metaforico, attraverso il quale il bambino acquisisce il modo di agire “come se” fosse il genitore. La naturalezza con la quale i bambini recepiscono la metafora è una caratteristica dell’infanzia. Così come la fantasia: processo naturale e innato attraverso il quale il bambino impara a dare un senso al mondo esterno.
La fantasia è stata, per lunghi anni, considerata con una funzione genetica e biologica. Pearce fa notare che vi sono due diversi giochi per la crescita del bambino sano. Uno è il gioco per imitazione, dove il piccolo riproduce ciò che vede, l’altro è il gioco simbolico o di fantasia, in cui un oggetto viene trasformato in qualcosa di diverso dalla sua realtà esterna. Questa “metafora di creazione” rappresenta il processo interiore di apprendimento del bambino. Il bambino, in questo modo, trasforma ciò che apprende in un gioco e inconsciamente, intessendo fantasia e creatività, favorisce l’integrazione. Tante sono state le teorie sul processo creativo del gioco e della fantasia. Ricordiamo, che Freud ha sempre sostenuto che la fantasia si sviluppasse dalla privazione e che esprimesse un bisogno dell’esaudimento di un desiderio. Bettlheim amplia il pensiero freudiano, sottolinea l’importanza della fantasia nelle funzioni essenziali della crescita e fa notare come la fantasia spesso salva i bambini dai fallimenti e li aiuta ad affrontare problemi emotivi tipici di alcuni fasi dello sviluppo.  La Montessori considerò la fantasia una tendenza patologica sfavorevole che facilita l’emergere di difetti caratteriali. Del tutto divergente al pensiero della Montessori fu quello di Piaget, che sosteneva il ruolo della fantasia data l’importanza per lo sviluppo cognitivo e sensoriale-motorio del bambino. I giochi simbolici e immaginativi, sono considerati strumenti di crescita della motilità e dello sviluppo consapevole cognitivo-spaziale. Da recenti studi è emerso, che la fantasia può funzionare secondo entrambe le modalità, compensatrice e creativa. Di fatti, i bambini possono usare la fantasia sia per cambiare situazioni spiacevoli e appagare bisogni non soddisfatti, sia per sviluppare capacità puramente creative.
La Axline, pone l’attenzione sulla necessità che il terapeuta debba viaggiare con fantasia di un bambino “senza porvi ordine per dargli un senso”. Inoltre l’autrice fa notare, che ciò che ha senso ed è terapeutico per un bambino, troppo spesso, è considerato insignificante per l’adulto.
Erickson differenzia la fantasia cosciente da quella inconscia. La fantasia cosciente è un modo per appagare un desiderio, ad esempio compiere imprese pur non essendo portati. Le fantasie inconsce, sono comunicazioni della mente inconscia di significative potenzialità che la nostra parte conscia mette in atto appena trova l’occasione giusta. Oaklander sostiene, che nel lavoro con i bambini la fantasia ha un ruolo importante, sia come fonte di divertimento, sia come specchio dei processi vitali interiori del bambino. Attraverso la fantasia si possono esprimere velate paure, descrivere silenziosi desideri e agire problemi.
Conoscere il mondo dei piccoli
«Passeggiavo lungo le vie del centro.
Davanti a me, seduto su un muretto, un uomo dalla lunga barba bianca scolpiva su una pietra.
Le sue mani crearono un uccello dalle enormi ali. Io, affascinata da quanto i miei occhi avevano visto, mi domandavo se sarei mai stata capace di esaltare qualità impercettibili, con la stessa naturalezza e semplicità.»
Si dice che Milton Erickson, maestro della psicoterapia basata sulle metafore, quando gli fu chiesto quali fossero le variabili più importanti per la psicoterapia rispose: “osservare, osservare, osservare”. Prima di utilizzare le metafore nel processo psicoterapeutico è importante osservare il comportamento dei bambini o degli adolescenti. Guardare cos’è che tiene desta la loro attenzione, riconoscere le minime risposte comportamentali e osservare il loro modo di interagire. Fortunatamente i bambini tendono ad essere più espressivi e meno vincolati alle convenzioni sociali rispetto agli adulti. Pertanto, durante la psicoterapia possono essere attenti, irrequieti o distratti, possono interrompere per fare domande, mostrare in modo chiaro ed esplicito i loro interessi o celarli dietro uno guardo riservato e timido. Inoltre, i bambini, così come gli adulti, non comunicano solo con il verbale; in loro possiamo cogliere chiari messaggi anche attraverso il non verbale e questi sono segnali minimi: indicatori di esperienze familiari del bambino.
I segnali minimi, sono la base affinché si possano creare delle metafore familiari al piccolo paziente e facilmente accettabili. Cerchiamo, ora, di capirne di più sui segnali minimi per disporre delle indicazioni che ci agevolano il percorso al mondo dei bambini.
Noi tutti abbiamo l’esperienza per riconoscerli e rispondervi. In particolare, i genitori ci forniscono un ottimo esempio. Nel giro di pochi giorni dalla nascita del loro piccolo, imparano un complesso ricercato assortimento di segnali minimi. Di fatto, prima della nascita il bambino impara a comunicare inizialmente con la madre, che ne percepisce i movimenti, la crescita e il temperamento. Non appena il bambino viene al mondo entrambi i genitori cominciano ad acquisire un linguaggio nuovo. La madre impara a capire quando è il momento di nutrire il suo piccolo, quando è sazio, quando vuole dormire ecc. I genitori imparano a rispondere ai piccoli movimenti del viso che segnalano l’inizio di qualche disturbo.
Quindi, anche se in questo periodo il bambino non possiede alcuna capacità di linguaggio, è evidente che tra il piccolo e i genitori è presente una forma di comunicazione per poter esprimere bisogni e sensazioni. Di fatto, in ogni stadio dello sviluppo, sin dalla nascita emerge spontaneamente fra genitori e bambino un nuovo e complesso accomodamento dei segnali minimi. La capacità di rispondere ai segnali minimi è uno degli strumenti terapeutici di maggiore efficacia di cui uno psicoterapeuta possa disporre. Ed è solo mediante l’identificazione e l’abilità a dare una risposta, che si apre una finestra sull’esperienza personale del bambino. Ad esempio il fatto di adeguarsi al tipo di linguaggio e di servirsene può aiutare il terapeuta a crearsi una propria esperienza interiore delle sensazioni che può avere il bambino e nel contempo, il piccolo sente il terapeuta più similare al suo modo di essere e si predispone a condividere il proprio mondo. Il terapeuta deve sentire nella stanza il piccolo paziente e vedere, ascoltare ed esperire per trovare dentro sé l’emozione, che il bimbo racconta.
Il riconoscimento dell’importanza dei segnali minimi si ebbe negli anni ’60 con l’emergere delle terapie del corpo. Il linguaggio non verbale del corpo divenne allora un nuovo e valido punto su cui gli psicoterapeuti dovevano concentrare la loro attenzione.
Approcci specifici per riconoscere e utilizzare i segnali minimi si trovano nell’opera di Erickson. Erickson andava silenziosamente sviluppando il proprio metodo innovatore di osservazione e utilizzazione di quelli che chiamò minimal cues (segnali minimi) assai prima che si formasse il movimento della terapia del corpo. In questo caso, egli attinse dalle esperienze della propria infanzia e adolescenza, elaborando tutto quanto da bambino gli era naturale. La curiosità infantile e l’osservazione minuziosa (tipica di tutti i bimbi), fu per Erickson il principio base delle sue terapie. Così come, l’utilizzo dei propri ricordi e delle proprie associazioni sono altri strumenti importanti per percepire e comprendere i segnali minimi, affinché si possa conoscere il mondo dei piccoli e indurre significativi movimenti emotivo.
L’approccio di “utilizzazione” alla sintomatologia risale ad Erickson, il quale ha sostenuto, che accettare i sintomi presentati dal paziente inserendoli nella strategia del trattamento è funzionale all’efficacia delle metafore. Un’efficace metafora terapeutica deve essere costruita su tutte le informazioni e su tutti i comportamenti presentati in modo conscio o inconscio dal bambino. Pertanto, anche i sintomi rientrano in quelle informazioni utili alla creazione delle metafore terapeutiche.
Ad oggi le posizioni prevalenti sull’origine e il trattamento dei sintomi si possono classificare in quattro punti.
Una prima teoria ritiene che i sintomi siano manifestazioni di esperienze traumatiche del passato, che risalgono, generalmente, alla prima infanzia o alla fanciullezza e, che possono essere risolti con un ritorno alla causa che li ha originati. Questo percorso a ritroso può avere carattere cognitivo e analitico, oppure può verificarsi perché stimolato da una intensa emozione. In entrambi i casi, la relazione con la causa di origine è considerata la l’agente su cui si basa la guarigione.
La seconda posizione vede nei sintomi il risultato di esperienze che condizionano di un apprendimento carente. Il trattamento è incentrato sul presente e mira a strutturare le esperienze cognitive del riapprendi mento. In questo approccio il concetto di causa originatrice è irrilevante.
La terza posizione ha una concezione psiconeurofisiologica dei sintomi, considerando sia le componenti organiche, sia quelle comportamentali. Secondo questo approccio, per stabilire l’eziologia dei sintomi si prendono in esame i fattori genetici e biochimici, unitamente alle influenze ambientali.
La quarta posizione considera il sintomo come un messaggio del’inconscio, utilizzabile per la sua stessa risoluzione, senza tener conto delle cause del passato. Erickson è stato il massimo esponente di quest’ultima teorizzazione e ha insistito sull’importanza dell’alleviamento del sintomo, prima di procedere all’indagine di qualsiasi altro fattore psicodinamico. La specificità della tecnica di Erickson nell’utilizzare il sintomo per provocare l’eliminazione, ci da un tipo di modello dove il sintomo stesso può essere trasformato nella soluzione.    Secondo questo approccio il terapeuta deve dare poco spazio alla rigorosa aderenza delle procedure terapeutiche convenzionali.   Erickson stesso era noto per la disponibilità e l’elasticità con cui offriva la sua terapia.   Certo, occorre fissare dei limiti; non ci si può attendere dai terapeuti che siano pronti a qualsiasi cosa, così come faceva Erickson. L’importante è, che l’elasticità di far terapia può rivelare dimensioni del trattamento, in altro modo impossibili da emergere.
Utilizzare il sintomo che si presenta significa, che ogni approccio è pertinente in relazione agli elementi di ogni determinata situazione clinica. Per taluni pazienti potrebbe essere valido un intervento nettamente cognitivo, per altri un’esperienza catartica sarebbe più utile e per altri ancora, potrebbe essere più adeguata una tecnica diretta di modificazione del comportamento. Pertanto, si può affermare che: sono i bisogni e la sintomatologia del paziente a stabilire il tipo di intervento specifico.
All’internodi questa cornice dobbiamo inserire l’approccio alla terapia infantile, peraltro molto vicino alla visione sistemica. I sintomi sono considerati come il risultato di risorse bloccate, ossia come il blocco delle capacità e potenzialità del bambino e non come manifestazione di patologia psichica o sociale.
I blocchi hanno origine dalla corretta o falsa percezione che il bambino ha dei vissuti esperenziali. Problemi relativi alla famiglia, alle amicizie e scolastici possono determinare un sovraccarico di pressioni che bloccano le naturali capacità funzionali e potenzialità di apprendimento del bambino. A causa di questo sovraccarico si ostacola il modo di sentire del bambino e di conseguenza quello di agire è diverso da quello del suo vero sé. Quando il piccolo non riesce ad essere se stesso, le risorse interne della sua personalità non sono prontamente disponibili. I sintomi, che in questo caso consideriamo comunicazione simbolica o metaforica dell’inconscio, non solo segnalano una sofferenza nell’ambito del sistema, ma ne forniscono un’attenta descrizione. Pertanto, il sintomo è il mezzo di comunicazione del messaggio. Heller sostiene che tutti i disturbi e sintomi sono delle metafore che contengono la storia di ciò che è il problema. Il terapeuta ha l’onere di realizzare metafore, che racchiudono una storia, all’interno della quale è possibile trovare eventuali soluzioni. «La metafora è il messaggio».
Mills J.,C., Croweley R.,J., “Metafore terapeutiche per i bambini”, Casa Editrice Astrolabio, Roma, 1988. Cit. p 42
Cfr. Mills J.,C., Croweley R.,J., “Metafore terapeutiche per i bambini”, Casa Editrice Astrolabio, Roma, 1988.
Cfr. Mills J.,C., Croweley R.,J., “Metafore terapeutiche per i bambini”, Casa Editrice Astrolabio, Roma, 1988.
Stern N. D., “La costellazione materna” , Bollati Borigheri, Torino, 2003
Terapia primaria, bioenergetica, terapia reichiana.
Mills J.,C., Croweley R.,J., “Metafore terapeutiche per i bambini”, Casa Editrice Astrolabio, Roma, 1988. Cit. p 62

La stanza dei giochi: il bambino in terapia familiare
Parlando di metafore, la tematica prende forma e ci trasporta ancor più quando si utilizzano con i bambini. La metafora con i bambini manifesta tutta la sua efficacia nella cornice della spontaneità, ed è per i piccoli un valido linguaggio di comunicazione, capace   di mediare il cambiamento in modo gradevole e fantasioso.  Inoltre, le metafore sono un modo per fornire ai piccoli pazienti esperienze, che potrebbero equipaggiarli di abilità adeguate in situazioni di vita reale. Non solo, l’uso della metafora terapeutica per bambini, aiuta a costruire capacità di problem solving ma favorisce, anche, la consapevolezza di emozioni vissute e accresce l’intelligenza emotiva.  Nell’intervento con i bambini il terapeuta deve fare molta attenzione a non porre limiti ai processi di pensiero del piccolo e considerare che il setting terapeutico familiare con un bambino è diverso rispetto a quello con una famiglia di soli adulti.   A proposito, la stanza di terapia con un bimbo si configura come “stanza dei giochi”, luogo dove il piccolo può manifestare se stesso senza alcuna paura. Ed è qui, che giochi, colori e oggetti di vario genere, misti ad un efficace rapporto terapeutico costituiscono la base per un buon punto di partenza della terapia.Obiettivo principale del terapeuta, quando è nella stanza con il bambino, è di entrare in contatto con il pensiero del piccolo, esplorare la stanza per conoscersi a vicenda (nel modo particolarissimo in cui lo sanno fare solo i bambini) e dialogare mediante elementi giocosi e/o divertenti, per affrontare argomenti anche molto seri.  La modalità di dialogo tra il terapeuta e il bambino è il principio basilare della comunicazione.
Affinché una comunicazione sia più efficace, il terapeuta deve accomodarsi al piccolo paziente, coordinarsi sui tempi, le pause, il tono e ritmo della del linguaggio bambino. Inoltre, per il terapeuta, che deve avvicinarsi al piccolo paziente, è di fondamentale importanza rivivere i momenti di spontaneità, le fantasie, le gioie di quando si era bambini e utilizzarli come validi strumenti terapeutici. Guardare al bambino che abbiamo dentro è l’elemento sul quale si costruisce il rapporto terapeutico. Nell’ultimo decennio varie ricerche hanno indagato sull’uso terapeutico della metafora con i bambini e si è venuti alla conclusione, che le metafore possono essere utilizzate per:· Catturare l’attenzione;· Stimolare il desiderio di apprendere;· Suscitare l’aspettativa di apprendere;· Preparare a ciò che verrà in seguito;· Conoscere le emozioni;· Evitare il confronto diretto con argomenti potenzialmente angoscianti,· Ravvivare l’immaginazione;· Sollecitare con parole e nozioni nuove;· Arricchire le conoscenze del bambino.La medesima ricerca ha sottolineato, che non tutti i bambini rispondono al “potere” delle metafore. Alcuni, vuoi per la loro età cronologica, vuoi per lo sviluppo cognitivo possono pensare in modo molto concreto e poco astratto. Per tanto sta nel terapeuta essere un ottimo osservatore e conoscere il più possibile l’universo del piccolo, per rendere la metafora efficace nel favorire il cambiamento e la crescita.
Bambini: fantasia e metafore“I bambini sono la migliore palestra per avvicinarci alla metafora”I bambini sono, in genere, molto ricettivi alle metafore e seppure inconsciamente hanno grande dimestichezza ad utilizzarle. Spesso preferiscono ascoltare storie, raccontarle o rappresentarle graficamente.  Nella nostra cultura, gran parte dell’identità infantile è costellata da metafore. Storie, fiabe, cartoni animati, eroi dei film, sono il cibo quotidiano di cui si nutrono bambini e adolescenti. Anche la funzione parentale di modello del ruolo, può essere vista come procedimento metaforico, attraverso il quale il bambino acquisisce il modo di agire “come se” fosse il genitore. La naturalezza con la quale i bambini recepiscono la metafora è una caratteristica dell’infanzia. Così come la fantasia: processo naturale e innato attraverso il quale il bambino impara a dare un senso al mondo esterno. La fantasia è stata, per lunghi anni, considerata con una funzione genetica e biologica. Pearce fa notare che vi sono due diversi giochi per la crescita del bambino sano. Uno è il gioco per imitazione, dove il piccolo riproduce ciò che vede, l’altro è il gioco simbolico o di fantasia, in cui un oggetto viene trasformato in qualcosa di diverso dalla sua realtà esterna. Questa “metafora di creazione” rappresenta il processo interiore di apprendimento del bambino. Il bambino, in questo modo, trasforma ciò che apprende in un gioco e inconsciamente, intessendo fantasia e creatività, favorisce l’integrazione. Tante sono state le teorie sul processo creativo del gioco e della fantasia. Ricordiamo, che Freud ha sempre sostenuto che la fantasia si sviluppasse dalla privazione e che esprimesse un bisogno dell’esaudimento di un desiderio. Bettlheim amplia il pensiero freudiano, sottolinea l’importanza della fantasia nelle funzioni essenziali della crescita e fa notare come la fantasia spesso salva i bambini dai fallimenti e li aiuta ad affrontare problemi emotivi tipici di alcuni fasi dello sviluppo.  La Montessori considerò la fantasia una tendenza patologica sfavorevole che facilita l’emergere di difetti caratteriali. Del tutto divergente al pensiero della Montessori fu quello di Piaget, che sosteneva il ruolo della fantasia data l’importanza per lo sviluppo cognitivo e sensoriale-motorio del bambino. I giochi simbolici e immaginativi, sono considerati strumenti di crescita della motilità e dello sviluppo consapevole cognitivo-spaziale. Da recenti studi è emerso, che la fantasia può funzionare secondo entrambe le modalità, compensatrice e creativa. Di fatti, i bambini possono usare la fantasia sia per cambiare situazioni spiacevoli e appagare bisogni non soddisfatti, sia per sviluppare capacità puramente creative.La Axline, pone l’attenzione sulla necessità che il terapeuta debba viaggiare con fantasia di un bambino “senza porvi ordine per dargli un senso”. Inoltre l’autrice fa notare, che ciò che ha senso ed è terapeutico per un bambino, troppo spesso, è considerato insignificante per l’adulto. Erickson differenzia la fantasia cosciente da quella inconscia. La fantasia cosciente è un modo per appagare un desiderio, ad esempio compiere imprese pur non essendo portati. Le fantasie inconsce, sono comunicazioni della mente inconscia di significative potenzialità che la nostra parte conscia mette in atto appena trova l’occasione giusta. Oaklander sostiene, che nel lavoro con i bambini la fantasia ha un ruolo importante, sia come fonte di divertimento, sia come specchio dei processi vitali interiori del bambino. Attraverso la fantasia si possono esprimere velate paure, descrivere silenziosi desideri e agire problemi.
Conoscere il mondo dei piccoli«Passeggiavo lungo le vie del centro.Davanti a me, seduto su un muretto, un uomo dalla lunga barba bianca scolpiva su una pietra.Le sue mani crearono un uccello dalle enormi ali. Io, affascinata da quanto i miei occhi avevano visto, mi domandavo se sarei mai stata capace di esaltare qualità impercettibili, con la stessa naturalezza e semplicità.»
Si dice che Milton Erickson, maestro della psicoterapia basata sulle metafore, quando gli fu chiesto quali fossero le variabili più importanti per la psicoterapia rispose: “osservare, osservare, osservare”. Prima di utilizzare le metafore nel processo psicoterapeutico è importante osservare il comportamento dei bambini o degli adolescenti. Guardare cos’è che tiene desta la loro attenzione, riconoscere le minime risposte comportamentali e osservare il loro modo di interagire. Fortunatamente i bambini tendono ad essere più espressivi e meno vincolati alle convenzioni sociali rispetto agli adulti. Pertanto, durante la psicoterapia possono essere attenti, irrequieti o distratti, possono interrompere per fare domande, mostrare in modo chiaro ed esplicito i loro interessi o celarli dietro uno guardo riservato e timido. Inoltre, i bambini, così come gli adulti, non comunicano solo con il verbale; in loro possiamo cogliere chiari messaggi anche attraverso il non verbale e questi sono segnali minimi: indicatori di esperienze familiari del bambino.I segnali minimi, sono la base affinché si possano creare delle metafore familiari al piccolo paziente e facilmente accettabili. Cerchiamo, ora, di capirne di più sui segnali minimi per disporre delle indicazioni che ci agevolano il percorso al mondo dei bambini.Noi tutti abbiamo l’esperienza per riconoscerli e rispondervi. In particolare, i genitori ci forniscono un ottimo esempio. Nel giro di pochi giorni dalla nascita del loro piccolo, imparano un complesso ricercato assortimento di segnali minimi. Di fatto, prima della nascita il bambino impara a comunicare inizialmente con la madre, che ne percepisce i movimenti, la crescita e il temperamento. Non appena il bambino viene al mondo entrambi i genitori cominciano ad acquisire un linguaggio nuovo. La madre impara a capire quando è il momento di nutrire il suo piccolo, quando è sazio, quando vuole dormire ecc. I genitori imparano a rispondere ai piccoli movimenti del viso che segnalano l’inizio di qualche disturbo. Quindi, anche se in questo periodo il bambino non possiede alcuna capacità di linguaggio, è evidente che tra il piccolo e i genitori è presente una forma di comunicazione per poter esprimere bisogni e sensazioni. Di fatto, in ogni stadio dello sviluppo, sin dalla nascita emerge spontaneamente fra genitori e bambino un nuovo e complesso accomodamento dei segnali minimi. La capacità di rispondere ai segnali minimi è uno degli strumenti terapeutici di maggiore efficacia di cui uno psicoterapeuta possa disporre. Ed è solo mediante l’identificazione e l’abilità a dare una risposta, che si apre una finestra sull’esperienza personale del bambino. Ad esempio il fatto di adeguarsi al tipo di linguaggio e di servirsene può aiutare il terapeuta a crearsi una propria esperienza interiore delle sensazioni che può avere il bambino e nel contempo, il piccolo sente il terapeuta più similare al suo modo di essere e si predispone a condividere il proprio mondo. Il terapeuta deve sentire nella stanza il piccolo paziente e vedere, ascoltare ed esperire per trovare dentro sé l’emozione, che il bimbo racconta.Il riconoscimento dell’importanza dei segnali minimi si ebbe negli anni ’60 con l’emergere delle terapie del corpo. Il linguaggio non verbale del corpo divenne allora un nuovo e valido punto su cui gli psicoterapeuti dovevano concentrare la loro attenzione. Approcci specifici per riconoscere e utilizzare i segnali minimi si trovano nell’opera di Erickson. Erickson andava silenziosamente sviluppando il proprio metodo innovatore di osservazione e utilizzazione di quelli che chiamò minimal cues (segnali minimi) assai prima che si formasse il movimento della terapia del corpo. In questo caso, egli attinse dalle esperienze della propria infanzia e adolescenza, elaborando tutto quanto da bambino gli era naturale. La curiosità infantile e l’osservazione minuziosa (tipica di tutti i bimbi), fu per Erickson il principio base delle sue terapie. Così come, l’utilizzo dei propri ricordi e delle proprie associazioni sono altri strumenti importanti per percepire e comprendere i segnali minimi, affinché si possa conoscere il mondo dei piccoli e indurre significativi movimenti emotivo.
L’approccio di “utilizzazione” alla sintomatologia risale ad Erickson, il quale ha sostenuto, che accettare i sintomi presentati dal paziente inserendoli nella strategia del trattamento è funzionale all’efficacia delle metafore. Un’efficace metafora terapeutica deve essere costruita su tutte le informazioni e su tutti i comportamenti presentati in modo conscio o inconscio dal bambino. Pertanto, anche i sintomi rientrano in quelle informazioni utili alla creazione delle metafore terapeutiche. Ad oggi le posizioni prevalenti sull’origine e il trattamento dei sintomi si possono classificare in quattro punti.Una prima teoria ritiene che i sintomi siano manifestazioni di esperienze traumatiche del passato, che risalgono, generalmente, alla prima infanzia o alla fanciullezza e, che possono essere risolti con un ritorno alla causa che li ha originati. Questo percorso a ritroso può avere carattere cognitivo e analitico, oppure può verificarsi perché stimolato da una intensa emozione. In entrambi i casi, la relazione con la causa di origine è considerata la l’agente su cui si basa la guarigione.La seconda posizione vede nei sintomi il risultato di esperienze che condizionano di un apprendimento carente. Il trattamento è incentrato sul presente e mira a strutturare le esperienze cognitive del riapprendi mento. In questo approccio il concetto di causa originatrice è irrilevante.La terza posizione ha una concezione psiconeurofisiologica dei sintomi, considerando sia le componenti organiche, sia quelle comportamentali. Secondo questo approccio, per stabilire l’eziologia dei sintomi si prendono in esame i fattori genetici e biochimici, unitamente alle influenze ambientali.La quarta posizione considera il sintomo come un messaggio del’inconscio, utilizzabile per la sua stessa risoluzione, senza tener conto delle cause del passato. Erickson è stato il massimo esponente di quest’ultima teorizzazione e ha insistito sull’importanza dell’alleviamento del sintomo, prima di procedere all’indagine di qualsiasi altro fattore psicodinamico. La specificità della tecnica di Erickson nell’utilizzare il sintomo per provocare l’eliminazione, ci da un tipo di modello dove il sintomo stesso può essere trasformato nella soluzione.    Secondo questo approccio il terapeuta deve dare poco spazio alla rigorosa aderenza delle procedure terapeutiche convenzionali.   Erickson stesso era noto per la disponibilità e l’elasticità con cui offriva la sua terapia.   Certo, occorre fissare dei limiti; non ci si può attendere dai terapeuti che siano pronti a qualsiasi cosa, così come faceva Erickson. L’importante è, che l’elasticità di far terapia può rivelare dimensioni del trattamento, in altro modo impossibili da emergere.Utilizzare il sintomo che si presenta significa, che ogni approccio è pertinente in relazione agli elementi di ogni determinata situazione clinica. Per taluni pazienti potrebbe essere valido un intervento nettamente cognitivo, per altri un’esperienza catartica sarebbe più utile e per altri ancora, potrebbe essere più adeguata una tecnica diretta di modificazione del comportamento. Pertanto, si può affermare che: sono i bisogni e la sintomatologia del paziente a stabilire il tipo di intervento specifico.All’internodi questa cornice dobbiamo inserire l’approccio alla terapia infantile, peraltro molto vicino alla visione sistemica. I sintomi sono considerati come il risultato di risorse bloccate, ossia come il blocco delle capacità e potenzialità del bambino e non come manifestazione di patologia psichica o sociale.I blocchi hanno origine dalla corretta o falsa percezione che il bambino ha dei vissuti esperenziali. Problemi relativi alla famiglia, alle amicizie e scolastici possono determinare un sovraccarico di pressioni che bloccano le naturali capacità funzionali e potenzialità di apprendimento del bambino. A causa di questo sovraccarico si ostacola il modo di sentire del bambino e di conseguenza quello di agire è diverso da quello del suo vero sé. Quando il piccolo non riesce ad essere se stesso, le risorse interne della sua personalità non sono prontamente disponibili. I sintomi, che in questo caso consideriamo comunicazione simbolica o metaforica dell’inconscio, non solo segnalano una sofferenza nell’ambito del sistema, ma ne forniscono un’attenta descrizione. Pertanto, il sintomo è il mezzo di comunicazione del messaggio. Heller sostiene che tutti i disturbi e sintomi sono delle metafore che contengono la storia di ciò che è il problema. Il terapeuta ha l’onere di realizzare metafore, che racchiudono una storia, all’interno della quale è possibile trovare eventuali soluzioni. «La metafora è il messaggio».
Mills J.,C., Croweley R.,J., “Metafore terapeutiche per i bambini”, Casa Editrice Astrolabio, Roma, 1988. Cit. p 42Cfr. Mills J.,C., Croweley R.,J., “Metafore terapeutiche per i bambini”, Casa Editrice Astrolabio, Roma, 1988.Cfr. Mills J.,C., Croweley R.,J., “Metafore terapeutiche per i bambini”, Casa Editrice Astrolabio, Roma, 1988.Stern N. D., “La costellazione materna” , Bollati Borigheri, Torino, 2003Terapia primaria, bioenergetica, terapia reichiana.Mills J.,C., Croweley R.,J., “Metafore terapeutiche per i bambini”, Casa Editrice Astrolabio, Roma, 1988. Cit. p 62

Metafore Terapeutiche per Bambini, in Terapia Familiare

Indicazioni per una metafora efficace
La metafora terapeutica, vista come esperienza narrativa, ha molto in comune con l’universo delle fiabe che ci raccontavano i nostri genitori. Fiabe, che ci hanno permesso attraverso il viaggio della mente, di affacciarci alla vita, conoscere il mondo e le dinamiche sociali. Ancora oggi, pur vivendo nel villaggio globale, la fiaba non ha perso la sua funzione, essa è un ottimo esempio di usare la metafora tanto come mezzo letterario, quanto come strumento terapeutico. Le storie sono raccontate con un linguaggio pittoresco, dove fantasia e realtà si fondono per contenere un significativo messaggio psicologico, ma non tutte le metafore sono terapeutiche. Pertanto, è fondamentale capire quali elementi separano la metafora terapeutica da quella letteraria.
L’unico elemento comune sia alla metafora letteraria, sia a quella terapeutica è la corrispondenza con colui che comunica. Quando la corrispondenza avviene nel lettore a vari livelli, allora le metafore letterarie si differenziano da quelle terapeutiche. Nella metafora letteraria la corrispondenza fra la stessa e il suo referente deve essere tanto stretta da evocare familiarità. E se la descrizione è la funzione principale della metafora letteraria, l’alterazione, la reinterpretazione e la ricomposizione sono le mete fondamentali della metafora terapeutica. Tali scopi possono essere conseguiti se la metafora terapeutica evoca sia la familiarità immaginistica della metafora letteraria, sia familiarità relazionale, basata su un senso di esperienza personale. La storia, che si racconta, deve conquistare coloro che ascoltano. In particolare, i bambini si mettono più facilmente in rapporto con ciò che è familiare. Pertanto i personaggi, gli ambienti e gli eventi devono parlare alla comune esperienza di vita di quanti ascoltano, e devono farlo utilizzando un linguaggio familiare. La funzione più importante della metafora terapeutica è quella che Rossi ha definito come “realtà fenomenologica condivisa” in cui è sperimentato dal bambino il mondo creato dalla metafora del terapeuta. In tal modo attraverso una relazione terapeuta – bambino – storia, il piccolo paziente sviluppa un senso di identificazione con i personaggi e gli eventi che vengono descritti. In questo senso di identificazione c’è il massimo potere della metafora. Il bambino non si sente isolato, al contrario percepisce un senso di esperienza condivisa. E, ancora una volta la metafora terapeutica sprigiona tutta la sua forza: punta al problema , ma se ne tiene alla larga; attiva capacità e risorse specifiche e lo fa in forma non minacciosa. Analizzando delle fiabe classiche, possiamo constatare elementi comuni, che ci permettono di creare la realtà fenomenologica condivisa mediante la quale la metafora terapeutica consegue il proprio scopo. Le fiabe classiche: – stabiliscono un tema generale di conflitto metaforico per quanto riguarda il protagonista; – personificano processi inconsci in forma di eroi o soccorritori (che rappresentano le capacità e le risorse del protagonista), e di malfattori o ostacoli (che rappresentano le paure e le convinzioni negative); – personificano situazioni di apprendimento parallelo nelle quali il protagonista ha avuto successo; – presentano una crisi metaforica in un contesto di ineluttabile soluzione, mediante la quale il protagonista supera e risolve il proprio problema;- danno al protagonista un nuovo senso di identificazione per effetto del suo vittorioso “viaggio dell’eroe”; – terminano nella celebrazione in cui avviene il riconoscimento del valore del protagonista.
La metafora della favola
La metafora terapeutica è uno strumento potente nel favorire nuove associazioni e nuove costruzioni di senso, utilizzando elementi di cognizioni e di esperienze, strutture cognitive o immagini, nozioni ed emozioni, fantasia e memoria. La sua capacità di contaminazione, di fusione e di ricostruzione di domini di senso, la sua capacità di rendere permeabili le barriere cognitive ed affettive al cambiamento, la fluidità e la elasticità nella ideazione e nei confronti, la leggerezza e la lievità ne fanno un potente strumento terapeutico. La favola in quanto gioco metaforico, contiene e svela, in contemporanea, tutto ciò che non può essere detto altrimenti, e pone un limite, un velo e un veto a ciò che non può essere totalmente svelato, in quanto esso fa parte, di una dimensione interiore, vissuta talvolta come una profondità. Talvolta, guardare all´intimità del piccolo paziente viene vissuto specularmente come un proprio abisso in movimento, come presenza vertiginosa di ciò che è inafferrabile nelle proprie radici. La favola, quindi, è intesa da come gioco fra personaggi e istanze che fanno parte di ogni persona Così, da potere considerare il mondo interno nello stesso tempo segreto e pubblico. La magia delle favole va riconosciuta nella grande capacità di ancorarsi a contenuti profondi, lavorare sulle emozioni senza che il piccolo “si faccia male”. A conferma di quanto detto, il pensiero di Freud, che in un saggio del 1907 parla di vera “ars” poetica, come particolare e segreta dimensione inconscia, con la quale il poeta o
l´artista supera ogni ripugnanza, ogni dolore, ogni barriera sia del suo mondo interno sia nella sua relazione col mondo esterno. Il gioco metaforico nonché l´arte nascono quindi come pellicola invisibile che permette di proteggere le parti recuperate senza il rischio di distruggerle, nel momento assai delicato del recupero a coscienza. Freud chiama “sensazioni e sentimenti” queste “percezioni” che attraverso il sentire del corpo provengono dall´interno e muovono affettività ed emozione. Il mondo delle favole, quindi, come luogo metaforico di incontro tra le percezioni sensoriali esterne e sentimenti, affetti e sensazioni interne. La metafora della favola è vissuta come luogo e strumento di comunicazione , di “co-divisione”, luogo di apertura, nel quale ognuno esiste e apprende dalla sua angolatura personale ed esperienziale. E’ dunque in quest’ottica interpretativa, la fiaba va intesa come specchio della vita, come metafora delle emozioni e dei sentimenti fondamentali di ogni uomo, mediata dal meraviglioso. Il bambino impara a gestire le sue emozioni attraverso le storie che ascolta. E le fiabe non narrano di dolci coniglietti o di incoscienti fanciulli dai boccoli biondi, ma affrontano situazioni ben più inquietanti: orfani, matrigne, mostri, lupi, giganti, re e regine malvagie. Il bene e il male si intrecciano, e si scontrano in una serie di avvenimenti in cui il magico e il meraviglioso rendono tutto possibile. La fiaba come metafora terapeutica, riprende le strutture narrative classiche per costruire nuovi conflitti e utilizzarli come metodo di analisi a distanza. Il piccolo paziente, distaccato dai suoi fatti personali, prende consapevolezza di alcune dinamiche comportamentali in maniera meno brutale. L’atmosfera delle fiabe è fatta di un mondo senza tempo e di uno spazio non identificabile, dove tutto può anche andare al contrario e soprattutto dove i personaggi non sono unici, ma tipici. Categorie fantastiche di cattivi, buoni e coraggiosi eroi. Ripercorriamo per esempio la fiaba dei piccoli, per eccellenza: Cappuccetto Rosso. Il lupo, il cattivo, mente spudoratamente ed esageratamente alla bambina fingendosi la vecchia nonna, rispondendo a quelle ingenue domande. Questa fiaba ci fa sorridere, perché la semplificazione è agli estremi, ma dobbiamo ammettere che la simbolizzazione è chiarissima. Come spiega Bettelheim [1], in queste fiabe il bene vince sul male e il bambino si identifica con l’eroe buono, che esercita una forte attrattiva su di lui. La domanda che si pone il bimbo non è “Voglio essere buono? “ ma “ Come chi voglio essere?”.
Esiste però una fiaba riportata da Grimm, in cui la giustizia non trionfa. Si tratta di Gatto e il topo in società.: qui il gatto ha più volte il sopravvento sul topo e alla fine il topo viene mangiato. Il male qualche volta vince: la catena di bugie che il gatto inventa a spese del suo socio, è esponenziale e non può che concludersi con la morte di quest’ultimo. Il gatto di questa fiaba dunque diventa un esempio perfetto per far conoscere ai bambini lettori anche l’aspetto indisciplinato della loro persona, in modo che imparino a “dimensionarlo”. Chi di noi non ha mai detto bugie? Chi di noi non si sente un po’ gatto? Questo è il messaggio che passa dalla fiaba. Ci sono fiabe definite di iniziazione, che hanno una trama che trae origine da una bugia. La più esemplare è la fiaba di Hansel e Gretel, che racconta di questi due sfortunati fratelli ai quali il padre, costretto dalla miseria, mente senza cuore. Egli promette di andarli a riprendere nel bosco, all’imbrunire, per ben due volte. I bambini però sanno che verranno abbandonati e trovano il modo di tornare da soli verso casa. Solo il terzo tentativo di abbandonare i bambini nel bosco avrà successo e sarà allora che Hansel e Gretel troveranno la casetta di pan di zucchero. Inizieranno cioè a cavarsela da soli, si avventureranno nella vita. Faranno tesoro delle avversità vissute in precedenza, infatti essi stessi mentiranno alla strega: Hansel porgerà un ossicino dalla gabbia, invece del dito grassottello e Gretel fingerà di non saper aprire il forno da sola, per poterci spingere dentro la strega. I bambini imparano a difendersi, diventano in qualche misura adulti. La storia poi ha un secondo finale, infatti anche la famiglia, come valore irrinunciabile, viene recuperata. I fratelli, una volta eliminata la strega, si appropriano del suo tesoro e trovano la strada di casa, dove c’è il padre, che,consumato dal rimorso per averli abbandonati, ritroverà a sua volta il gusto di vivere. Una fiaba ricca di dettagli che fanno parte dell’universo bambino e umano e nella quale le bugie hanno un ruolo fondamentale: aiutano a crescere. Nella semplice fiaba del principe ranocchio, la bugia aiuterà a crescere la co-protagonista: quella capricciosa principessa che, pur di riavere indietro la palla caduta nel lago, mente al piccolo ranocchio, promettendogli la sua amicizia. Più avanti, quando alla principessa viene chiesto di tener fede alla promessa fatta, il re, il padre giusto, si intromette e la pone di fronte a un muro insuperabile. Non è possibile venir meno a una promessa. La principessa quindi, suo malgrado accetta il ranocchio in casa. Comprende di aver commesso una scorrettezza e viene poi ricompensata attraverso la trasformazione del ranocchio in principe. Quella prima bugia di bambina viziata la porta ad essere moglie felice.
Nella divertentissima fiaba di Andersen, i vestiti nuovi dell’imperatore vediamo la celebrazione totale della falsità. Tutti i protagonisti, molto meschinamente, mentono a sé stessi e agli altri. Nessuno ha il coraggio di dire la verità: tutti seguono l’inganno dei sarti impostori che dicono di aver confezionato abiti con tessuti preziosi. La catena di falsità porta il vanitosissimo imperatore a sfilare nudo in portantina. La catena viene spezzata dall’innocenza di un bambino che osservando la parata esclama: -Ma non ha niente indosso! – la folla lo segue in un mare di risate, ma a quel punto il vanitoso governante ha già compreso le sue colpe e dimostra di aver imparato la lezione:
-Ora devo guidare questo corteo fino in fondo! – E si drizza ancor più fiero. E’ diventato adulto e degno del suo ruolo. Nel mondo del tutto-possibile sono tante le riflessioni che possiamo costruire, ma uno solo il pensiero finale: la fiaba, nella sua semplicità, ha un potere profondo, stimola, fa sorridere al tempo stesso, smuove emozioni senza mai toccarle direttamente, permette di sviluppare abilità di problem solving, porta al cambiamento e lo fa mantenendo la giusta “distanza di sicurezza”.
Metafore Artistiche: disegni, dipinti, sculture, giocare e costruire
Quando parliamo di metafore oltre alla loro utilizzazione in forma narrativa per integrare i sistemi sensoriali e provocare dei cambiamenti a livello inconscio, si deve riconoscere un’altra applicazione terapeutica: la metafora artistica. La metafora artistica, peraltro molto adeguata nella terapia con bambini, utilizza strategie di disegno, di gioco , di lettura, di drammatizzazione e creazione in genere, affinché al piccolo paziente si possa trasmettere un’altra dimensione dell’esperienza terapeutica. Tanto il racconto metaforico, quanto la metafora artistica hanno il loro punto cardine nell’integrazione degli emisferi cerebrali destro e sinistro, a livello cosciente e inconscio, tramite gli approcci plurisensoriali. La metafora artistica è pluridimensionale e tridimensionale, in quanto comporta l’uso di oggetti nello spazio. Ciò rende più semplice l’espansione del termine metaforico, in termini tangibili e fisici. In questo modo la mente inconscia del piccolo paziente può esprimere e risolvere il problema del piccolo e lo fa tramite una rappresentazione cosciente. Il bambino attinge ad una banca interiore di creatività dove recupera immagini e sentimenti inconsci che traduce con colori e forme, e li condivide con il terapeuta. L’uso del disegno come strumento di terapia, tanto negli adulti quanto nei bambini, sta diventando molto più comune. La rappresentazione grafica fornisce informazioni preziose sulla funzionalità sensoriale del bambino. Talvolta il modo di disegnare può perfino scaturire un quadro esplicito del sistema sensoriale fuori coscienza. Pertanto, è molto importante suscitare esperienze preferite e osservare i segnali minimi allo scopo di ottenere informazioni per la creazione della metafora terapeutica. Il disegno delle risorse interiori oltre ad essere veicolo di guarigione è un’altra importante fonte di informazione. Infatti, è considerato mezzo di raffigurazione della dinamica personale e familiare per ottenere insight, analisi e maggiore comprensione. L’uso che si fa del disegno delle risorse interiori, mira non solo a illuminare la storia della dinamica familiare e interpersonale del passato, ma media gli elementi terapeutici in atto determinanti e il bambino in trattamento. Il disegno è un intervento terapeutico a più finalità: aiuta il terapeuta ad individuare il sistema sensoriale fuori coscienza del bambino; può provocare esperienza di catarsi e sfogo emotivo; può operare per le famiglie come sistema di retroazione, contribuendo a chiarire il punto i vista di ciascun membro sulle soluzioni; per il bambino è un sistema di retroazione immediata che concretizza quelle che possono essere le soluzioni e le risorse. Al terapeuta il disegno fornisce una serie di risorse e strutture di fondo che possono essere inserite nelle metafore narrative. Inoltre il disegno è per il terapeuta un sistema di comunicazione molto familiare al bambino, il quale non sentendosi giudicato comunica liberamente e con la semplicità tipica dei piccoli pazienti. Un altro strumento metaforico escogitato per aiutare i bambini ad affrontare i dolori fisici è “il libro del dolore che va meglio”. Questo strumento ha lo scopo di fornire un mezzo artistico mediante il quale si possano, tanto oggettivare le sensazioni dolorose, quanto accedere a risorse interiori inutilizzate. Gli aspetti visivi e cenestesici del disegno vengono messi a fuoco in una forma che promuove un maggiore benessere tramite la dissociazione che avviene naturalmente per effetto del processo figurativo del disegno. Ricerche, fatte da Bander, Erickson e Rossi, sulla comunicazione mente e corpo, hanno rivelato che la dissociazione è il centro di controllo del dolore e può anche alterare l’effettiva fisiologia del dolore stesso, per i suoi effetti positivi sul sistema endorfinico del bambino. Va sottolineato che “il libro del dolore” è destinato a essere impiegato come approccio terapeutico aggiuntivo alla diagnosi e al trattamento medico.
Oltre alle strategie dei disegni delle risorse interne, che abbiamo trattato finora, altra applicazione delle rappresentazioni grafiche è il disegno della famiglia, in cui più di un membro della famiglia partecipa alla seduta. Il disegno della famiglia permette al terapeuta di raccogliere molte informazioni sotto forma di strutture di fondo risorse interiori. Il disegno con la famiglia può anche servire a creare un equilibrio interna della famiglia, in cui ciascuno è consciamente legato condividendo il momento in cui si crea il disegno. Un altro mezzo per la creazione originale di metafore plurisensoriali terapeutiche è il gioco delle risorse. Questo gioco è creato singolarmente da ciascun bambino, e viene ricreato ogni volta che lo si gioca. Le informazioni che il bambino dà sul proprio mondo sono da lui stesso trasformate in simboli (metafore), che a sua insaputa rappresentano il suo problema, i suoi blocchi coscienti e inconsci, e le sue risorse interiori. Il primo punto per costruire il gioco delle risorse consiste nel fornire il bambino di un grande foglio di carta da disegno, matite e pennarelli. Poi gli si chiede di disegnare in un angolo del foglio qualcosa, che vorrebbe avere nella vita, qualcosa di molto importante. Gli si fanno chiudere gli occhi e gli si dice di immaginare una mappa che possa guidare al raggiungimento dell’obiettivo. Quando il bambino ha ben chiara, nella sua mente, la mappa gli si chiede di disegnarla. Mentre disegna la mappa gli si chiede di inserire tre ostacoli che impediscono il raggiungimento degli obiettivi. Poi, si dice al piccolo di creare una risorsa specifica da contrapporre a ciascun ostacolo. Le risorse verranno disegnate su cartoncini, così da nominarle carte delle risorse. Si continua facendo disegnare al bambino un certo numero di caselle a piacere compreso la partenza e l’arrivo e creando delle pedine con cose che più preferisce. Infine, il terapeuta e il bambino disegnano sul foglio di carta un cerchio del diametro da dividere in parti uguali, come fette di una torta. In ogni fetta il bambino disegna una delle figure già poste, in dimensioni minori, sulle carte delle risorse, e le contrassegna con un numero dall’uno al sei. I numeri corrispondono a quelli del dado con cui si gioca. I giocatori sono il terapeuta e il bambino, che iniziano a giocare mettendo le loro pedine simboliche sul personaggio/oggetto preferito. In seguito, il bambino lancia il dado e sposta la pedina in base al valore del numero uscito. Qualora si ritrova su un ostacolo ripete il lancio finche il numero non coincide con quello da cui è contrassegnata la figura della risorsa riportata sulla carta grande. A questo punto gli viene consegnata la carta delle risorse piccola corrispondente, che diventa un pass per proseguire nel movimento della pedina. Si prosegue così finché il piccolo non raggiunge l’obiettivo. E importante sottolineare che la partita finisce solo quando il bambino raggiunge l’obiettivo.
[1] Bettelheim B. “Il mondo incantato: uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe”, Feltrinelli, Milano,1986

La metafora

La Metafora è uno specchio,che riflette l’immagine di sé, della vita, degli altri. Tali immagini possono diventare una chiave per il cambiamento.
Che cos’è la metafora? Come può essere definita la metafora? Un linguaggio figurato, una figura retorica, un modo simbolico di esprimere qualcosa o un’espressione fantasiosa e creativa dove le leggi del mondo reale si combinano con l’irreale per esplorare una parte più profonda dell’individuo? La letteratura è ricca di definizioni a proposito, ma in questa sede, prima di addentrarci nello specifico dell’argomento e ampliarlo secondo un approccio psicoterapeutico familiare, cerchiamo di capirne di più movendo i primi passi dal semplice concetto di metafora; nozione che, peraltro, troverà d’accordo molti studiosi. Metafora (dal greco μεταφορά, da metaphérō, «io trasporto») è un tropo linguistico e si ha quando, al termine che normalmente occuperebbe il posto nella frase, se ne sostituisce un altro la cui “essenza” o funzione va a sovrapporsi a quella del termine originario creando, così, immagini di forte carica espressiva. La metafora differisce dalla similitudine per l´assenza di avverbi di paragone o locuzioni avverbiali (“come“). E non è totalmente arbitraria: in genere si basa sullo stabilimento di un rapporto di somiglianza tra il termine di partenza e il termine metaforico, ma il potere comunicativo della metafora è tanto maggiore quanto più i termini di cui è composta sono lontani nel campo semantico. In semantica la metafora è più propriamente il processo per cui una parola si arricchisce di nuovi significati, per estensione. Ad esempio, la parola vite indica l´utensile vite per analogia con la pianta della vite (per somiglianza tra la filettatura dell´utensile e il viticcio della pianta). Spesso tali meccanismi sono fossilizzati nel lessico e non sono avvertiti dal parlante, ma si possono ricostruire con lo studio dell´etimologia. L’uso della metafora è essenziale al linguaggio umano, in quanto consente di trasmettere pensieri e concetti altrimenti difficili da comunicare. La metafora è nata, come elemento di studio, di approfondimento e d’uso della retorica, l’arte antica del bel parlare e della capacità di persuadere. Il suo uso, inizialmente poetico e persuasivo, si è esteso nel tempo, a tutte le discipline. Di metafora, si sono interessati retori e filosofi del passato, quali Isocrate, Cicerone, Sant’Agostino, Aristotele. E proprio quest’ultimo ha sostenuto che: « La metafora consiste nel trasferire ad un oggetto il nome che è proprio di un altro: e questo trasferimento avviene, o dal genere alla specie, o da specie a specie, o per analogia.» A riprendere e ampliare la definizione di metafora, di Aristotele, fu Turbayne, il quale fece notare che la metafora non deve necessariamente essere espressa in parole, ma può essere comunicata anche con dei segni. Pertanto, il quadro di un pittore o il gioco di un bambino può essere considerato espressione metaforica. Turbayne, arricchì ancor più, la descrizione di metafora fatta da Aristotele, e asserì che la parabola, la favola, l’allegoria, e il mito possono essere considerati sottogruppi della metafora. E seppure Turbayne, è stato tanto innovativo nella descrizione della metafora, omette di considerare che una persona può consciamente recepire una metafora secondo il senso letterale, mentre a livello inconscio ne può recepire il significato simbolico. Questa è l’ipotesi di base, su cui si fonda l’impiego clinico della comunicazione metaforica. Nella storia della scienza sono rinvenibili molte metafore tant’è, che ogni «[…] mutamento di teoria è accompagnato da alcune importanti metafore…». Esse possono assumere valore esegetico, come metafore sostitutive, od anche rappresentare «[…]un ponte che viene offerto all’intuizione » Anche le teorie psicologiche offrono molte metafore: il cognitivismo con il modello del computer, la psicoanalisi con un uso anche clinico di questo strumento, e le teorie sistemiche con le descrizioni “triangolari” delle dinamiche familiari, solo per fare alcuni esempi. Se dunque, le metafore sono ampiamente utilizzate nel ragionamento scientifico, si assiste negli ultimi anni alla diffusione della prospettiva narrativa nella quale si osserva da parte di molti studiosi non solo l’adozione di un modello scientifico narrativo, ma anche lo sviluppo di molte ricerche sulle modalità narrative di ragionamento che comportano anche il ricorso alle metafore. Nella letteratura sistemica al termine metafora è stato assegnato un significato ampio, che coglie la continuità e la compresenza tra diversi livelli mentali. A proposito, sono molto significative le ipotesi antropologiche di Brenda Beck. La Beck considera la metafora come un mediatore, capace di mettere in comunicazione gli aspetti sensibili e immaginativi con quelli logici e razionali. Gregory Bateson, padre della teoria sistemica, ha più volte sottolineato il ruolo svolto dalla metafora nella conoscenza. La metafora è espressione artistica delle emozioni e costituisce il senso relazionale e emozionale condivisa dal gruppo. Anche Minuchin e Whitaker si sono interessati di utilizzare le metafore nelle loro psicoterapie e mentre Minichin parla di uso di metafore spaziali e organizzative (sia nella descrizione dei problemi, sia nell’individuazione dei percorsi risolutivi); Whitaker da importanza all’uso della metafora in quanto massima espressione del sé terapeutico. Gordon nel suo testo Metafore Terapeutiche, esamina la costruzione della metafora, come modalità per comunicare e generare cambiamenti. La metafora, è uno strumento elettivo di evoluzione e creatività, è capace di apportare continuo dinamismo alle strutture di pensiero. E’ esemplificazione emotiva di un contenuto verbale. E’ la comprensione del modello del mondo dell’altro e si può creare in modo naturale e inconscio dalla narrazione. Offre l’occasione di “entrare” nelle emozioni e talvolta di condividerle. Rende più fluente la comunicazione e favorisce l’apprendimento. Coinvolge, incanta, concede l’opportunità di un viaggio ai confini tra realtà e fantasia.
L’ uso della metafora nella storia
La metafora è, da sempre, un elemento essenziale nella comunicazione umana. Racconti e aneddoti sono stati continuamente adottati per trasmettere messaggi specifici. Molteplici, sono le metafore che ci accompagnano negli anni. Fra queste, ricordiamo in poche righe le più resistenti nel tempo: i racconti tramandati con la Bibbia. La Bibbia, utilizza un linguaggio spiccatamente metaforico e persuasivo atto a trasmettere messaggi su concetti da sempre indispensabili nella vita dell’uomo, come il bene e del male. A tal proposito citiamo Il Libro di Giobbe , che intende rispondere alla domanda di come Dio premi o castighi le azioni degli uomini. Il libro compare sia nelle scritture cristiane sia in quelle ebraiche e probabilmente risale a circa duecentomila anni fa. Gesù insegnava tramite le parabole, racconti sulla moralità e la giustizia, le parabole sono state tanto efficaci da rendere i personaggi come il Buon Samaritano e il Figliuol Prodigo, parte del nostro vocabolario quotidiano. Dicasi altresì dei grandi poemi epici, dell’Iliade e dell’Odissea, della Divina Commedia, solo per citarne alcuni.
La metafora in psicoanalisi
Secondo Freud il pensare per immagini sta più vicino ai processi inconsci di quanto lo sia il pensare per parole, quindi le immagini metaforiche, sono una forma di pensiero attraverso la quale i processi inconsci vengono espressi. Nel saggio del 1907 Freud parla di “ars poetica”, come particolare e segreta dimensione inconscia, con la quale il poeta o l’artista supera ogni ripugnanza, ogni dolore, ogni barriera sia del suo mondo interno sia della sua relazione esterna. Per Szajnberg, il transfert è un aspetto importante per la riuscita della psicoterapia analitica, e la metafora è cruciale per portare o trasportare simboli e ambiguità del cliente da un momento all’altro della sua vita, da una parte all’altra della sua mente. Secondo Jung, l’immagine indotta emotivamente è l’organizzatore principale della mente umana; mito e archetipo sono immagini metaforiche universali. Sia il concetto di Jung di archetipo inteso come metafora universale, sia i miti della cultura umana rivelano immagini metaforiche universali; ciò indica che mito e archetipo si riferiscono ad una precisa dimensione dell’esperienza umana: la struttura metaforica della realtà trans-culturale.Per Bettelheim è a causa della rimozione o del processo di censura che l’inconscio rivela sé stesso in simboli o metafore. Una somiglianza e una continuità tra la struttura individuale e quella universale dell’esistenza umana è compatibile con l’affermazione che la realtà individuale, sociale, trans-culturale è strutturata metaforicamente.Nella teoria delle Relazioni Oggettuali il sé può essere una immagine rappresentazionale interna, che di solito trae origine dall’area affettiva; la metafora e la struttura metaforica della realtà di una persona esprimono anche una somiglianza tra relazioni sé-oggetto interne (intrapersonali) ed esterne (interpersonali). Il discorso metaforico di un cliente può rilevare le dinamiche psicologiche del sé, per esempio “sto andando in pezzi” è una metafora intrapersonale. Rottemberg ritiene, che la metafora combini il processo primario e quello secondario del pensiero; l’interpretazione metaforica in psicoterapia è sempre generata dal terapeuta anche se si dice che “è desiderabile che il terapeuta funzioni creativamente per stimolare e facilitare il coinvolgimento del paziente nel lavoro creativo”. In psicoanalisi la metafora è considerata un fenomeno regressivo, un avvicinamento all’atto terapeutico che è l’interpretazione. Le interpretazioni metaforiche mirano a catturare l’esperienza e il pensiero del cliente nel linguaggio di quest’ultimo senza andare oltre a ciò che il cliente ha detto, hanno le maggiori probabilità di essere accettate da lui. Sia la mente che il corpo sono unificati all’interno della struttura metaforica della realtà individuale. Per Stern trovare la metafora terapeutica chiave è l’obiettivo della psicoterapia psicoanalitica per comprendere e cambiare la vita di un individuo.
Metafora e Ipnoterapia Eriksoniana
Erikson per primo esplorò l’uso di storie e aneddoti come metafore, la sua popolarità ha portato molti a considerare gli aneddoti l’unico modo per utilizzare le metafore in terapia. Di fronte ad un intervento paradossale il pensiero cosciente del cliente è sovraccaricato dalla logica illogica del paradosso; il cliente si trova in un processo di ricerca mentale inconscia. L’approccio eriksoniano utilizza la metafora per comunicare con i processi inconsci del cliente, per attivarli e per spostare ed elaborare le informazioni da una conoscenza verbale- logica ad una immaginifico- analogica. Per Erikson è il terapeuta che costruisce aneddoti, che contengono metafore simili alla situazione reale; inoltre l’aneddoto ha un obiettivo di trattamento specifico. Per ciò che riguarda le metafore, Erikson le adoperava anche nell’ipnosi per indurre un maggior successo. Convinto, che il comportamento del terapeuta deve adeguarsi alle singole persone che entrano in terapia, non ha mai cercato di adattare tutti i pazienti allo stesso modello terapeutico; con alcune persone ha usato termini piuttosto pesanti, con altre invece ha detto le cose in modo che il paziente si rendesse conto solo più tardi del loro significato; così in alcuni casi ha dimostrato che si può discutere apertamente di taluni argomenti, mentre in altri casi è preferibile affrontare il problema indirettamente e lasciare che sia il paziente a scoprire l’oggetto della discussione. Erikson era persuaso dall’idea che una persona poteva imparare molto quando riusciva a superare delle avversità perciò, quando aveva a che fare con qualcuno con scarsa stima di sé e che non riusciva a trovare stimoli per migliorarsi, spesso raccontava episodi della propria vita, sostenendo che le persone, cui il racconto metaforico era diretto, avrebbero potuto utilizzare il contenuto a modo proprio e coglierne i significati da applicare alla propria situazione. I racconti metaforici possono parlare dei problemi della persona in un linguaggio simbolico, togliendo l’ansia che ne deriverebbe affrontando il problema direttamente. Non esiste la metafora buona per tutte le stagioni, ma esiste la metafora adatta a quella particolare situazione, per quella particolare persona. La metafora può favorire un processo di analogia e di identificazione, nonché d’apprendimento e d’elaborazione, e può diventare la base di un cambiamento.
Metafora e Terapia Familiare Sistemica
È Minuchin a introdurre le metafore per identificare la realtà strutturata metaforicamente dalla famiglia. Secondo Minuchin la famiglia costruisce la sua realtà attuale ed è compito del terapeuta selezionare “dalla cultura stessa della famiglia” le metafore che simbolizzano la sua realtà specifica e usarle come un’etichetta che indica la realtà famigliare e suggerisce la direzione del cambiamento. L’ipotesi che la struttura metaforica della realtà intrapersonale e interpersonale può essere reciproca si basa sull’analogia che la famiglia è come un ologramma (olismo in questo caso significa: “il tutto è codificato in ognuna delle parti, e ognuna delle parti può generare il tutto”) che è simile al concetto di famiglia “il tutto è più della somma delle parti” è traducibile in “ la struttura metaforica della realtà famigliare è nella struttura metaforica della realtà individuale, e la realtà metaforica di ogni individuo è nella struttura metaforica della realtà famigliare” Minuchin, definisce “holon” l’individuo, il nucleo famigliare, la famiglia estesa e la comunità affermando che ogni holon è sia un tutto che una parte.Haley e Madanes sostengono che l’essenza dell’interscambio tra i membri di una famiglia sta proprio nelle caratteristiche metaforiche Vs quelle logiche della comunicazione. Haley pone in contrasto la comunicazione metaforica rispetto a quella logica; per lui la comunicazione metaforica è analogica. Madanes afferma che ogni comportamento può essere o analogico o metaforico: è analogico quando assomiglia ad un altro comportamento per certi aspetti; è metaforico quando simbolizza o è usato al posto di un altro comportamento.Per Bateson la metafora è il principio con cui l’intera struttura degli esseri viventi è messa insieme. La metafora è una struttura che connette, una struttura che caratterizza l’evoluzione di tutti gli esseri viventi. Per Watzlawick le metafore sono forme espressive che agiscono principalmente a livello analogico, aggirando le razionalizzazioni difensive dei pazienti ed attivando in funzione terapeutica la sfera intuitiva ed emotiva della personalità. Infine, anche Boscolo si è interessato della metafora, sostenendo che il linguaggio proprio della metafora, i simboli, le immagini mentali tendono a stabilire un clima emotivo fluido ed intenso che facilita il cambiamento terapeutico.
I vantaggi della Metafora nel lavoro del terapeuta
Gli interventi terapeutici che fanno leva sulle metafore generate dal cliente aiutano sia il terapeuta che il cliente ad allargare e approfondire la loro comprensione del sistema di pensiero di quest’ultimo, sistema che rispecchia nel suo uso delle metafore, e in particolare nelle metafore dei suoi ricordi d’infanzia. Esistono due percorsi per raggiungere questi risultati: innanzi tutto non viene utilizzata nessuna interpretazione né quadri di riferimento (frames o reference) esterni (modelli teorici o quadri mentali del terapeuta) durante il processo di esplorazione/trasformazione. Il terapeuta facilita nel cliente la ricerca interiore delle proprie immagini metaforiche, evitando di introdurre qualsiasi altro contenuto aggiuntivo. Se il terapeuta propone una sua idea lo fa solo per aiutare il cliente a prendere in considerazione ulteriori possibili significati o immagini di una metafora da lui già presentata. Se il cliente rifiuta il suggerimento, questo viene lasciato cadere dal terapeuta. Sono quindi i clienti che hanno il potere di elaborare e di modificare le loro immagini metaforiche: i terapeuti rispettano l’esperienza e le scelte soggettive dei clienti, accettando ciò che si rivela durante il processo di esplorazione e trasformazione. In secondo luogo il linguaggio metaforico è influenzato dalla “cultura” individuale di ciascuno e in qualche modo la riflette. Le metafore generate dal cliente portano in luce la personale esperienza e il personale sistema di significati di ciascun cliente individualmente inteso, dato che la metafora tipicamente incorpora influenze culturali soggettive piuttosto che generalizzazioni e stereotipi culturali diffusi. Allo stesso modo le metafore dei primi ricordi infantili sono immagini dell’infanzia dell’individuo che rispecchiano i quadri mentali di una persona nella sua unicità, i quali a loro volta risentono dell’influenza della cultura e dell’appartenenza etnica, a loro volta mediate dalla famiglia e dal sistema sociale in cui la persona è cresciuta. In conclusione, le metafore generate dal cliente sono “prossimali” all’ interazione tra cliente e terapeuta, e dovrebbero quindi poter essere correlate a un risultato terapeutico positivo . Inoltre, dato che il processo di esplorazione e di trasformazione delle metafore generate dal cliente si verifica all’interno della sua visione del mondo, gli interventi metaforici generati dal cliente sembrano adattarsi particolarmente bene alla psicoterapia con popolazioni culturalmente differenti. La psicoterapia con le metafore offre un modo per esprimere empatia, ascoltare e accedere a processi inconsci, facilitare una maggiore comprensione e un migliore contatto nella relazione terapeutica e affina la capacità del terapeuta di vedere con gli occhi dell’altro, ascoltare con le sue orecchie e sentire con il suo cuore.Tale metodo aiuta il terapeuta ad evitare gli atteggiamenti di onnipotenza, fare attenzione sia al procedimento che al contenuto, mostrare rispetto e acquisire una comprensione dell’unicità di ogni cliente, aggirare la sua resistenza, dargli la capacità di iniziare un movimento e un cambiamento, aumentare la consapevolezza del terapeuta rispetto alle sue aspettative e ai suoi vissuti (controtransfert), nonché sviluppare abilità di psicoterapia breve.
Come costruire una metafora
Ogni ambito sia terapeutico, formativo o informativo, produce tipi di metafore simili ma anche diverse. Diversi gli obiettivi, i destinatari, le metodologie, i gestori stessi della metafora. Simili gli intenti: stabilire corrispondenze e produrre cambiamenti. Questa similarità consente di individuare una procedura di base comune per la costruzione di metafore.A questo proposito la neurolinguistica ha elaborato dei modelli già individuati da Milton Erickson per la creazione di metafore efficaci. Innanzitutto la raccolta di informazioni • sul destinatario della metafora: individuare il modello del mondo, gli schemi cognitivi, la sua mappa percettiva, affettiva, cognitiva e comportamentale, le sue esigenze, il suo potenziale di flessibilità e le sue eventuali resistenze • sul problema-caso : quante e quali sono le persone significativamente coinvolte, quali le relazioni intrattenute, quali gli elementi di sostegno, quali gli ostacoli, quali gli eventi che hanno determinato (o determineranno) il problema-caso, quale il decorso (o il probabile decorso)Le informazioni raccolte dal costruttore di metafore possono essere specifiche o generiche (ad esempio nel caso terapeutico, il rapporto diretto col paziente permette al terapeuta una conoscenza sicuramente approfondita).In ogni caso sono le informazioni, che ci permettono di stabilire un’analogia e questo equivale a creare una relazione, un allineamento tra destinatario e metafora. Questa relazione destinatario-metafora (raccontata, disegnata, resa tangibile) induce ad una legame empatico, crea un feeling tra soggetto e oggetto, ricrea quello che in neurolinguistica è conosciuto come rapport. Il costruttore di metafora deve essere capace di costruirlo con un buon lavoro di calibrazione (studio del destinatario) e di ricalco (rispecchiamento) tra personaggi metaforici e destinatario. La calibrazione riporta alla preliminare raccolta di informazioni, allo studio dell’interlocutore, dei suoi atteggiamenti, dei suoi modelli di conoscenza e di rappresentazione.In una comunicazione interpersonale queste informazioni vengono date dall’osservazione delle immagini che l’interlocutore usa, delle sue manifestazioni fisiche ed emotive, e dall’ascolto del suo vocabolario.Queste parole, frasi, immagini che le persone usano per comunicare, e il modo in cui le usano, offrono informazioni importanti sul loro mondo interiore. Il ricalco è un processo di rispecchiamento con cui una persona, attraverso il proprio comportamento, riproduce il comportamento dell’interlocutore, dimostrando così attenzione al suo punto di vista e al suo modello del mondo. Riporta alla fase di costruzione effettiva della metafora, al suo intento analogico.Le informazioni acquisite con la calibrazione servono per comprendere il modo in cui l’interlocutore interpreta la realtà. Sulla base di queste informazioni è possibile uniformare il proprio agire (o strutturare la propria metafora) secondo ciò che in un dato momento è considerato il comportamento più appropriato alla relazione in corso.Nella narrazione metaforica è indispensabile calibrare e ricalcare per stabilire analogie. Ed è importante farlo soprattutto in ambito psicoterapeutico, al tal proposito lo fa il terapeuta col paziente (sa chi ha davanti, lo vede, lo conosce, ne conosce problemi e attese); Una volta raccolte le informazioni necessarie queste devono essere trasformate in metafora.I passaggi indispensabili per questa trasformazione sono: • creare una storia analogica: ricalcare il destinatario e il suo problema-caso; • espandere l’analogia con un isomorfismo: stabilire eventi, comportamenti e relazioni tra i protagonisti della metafora simili a quelli vissuti dal destinatario stesso; • introdurre nel contesto della storia esperienze (anche marginali e non necessariamente vissute dal protagonista, ma anche da personaggi collaterali) tali da stimolare nel destinatario riflessioni che lo portino ad aperture cognitive emotive e comportamentali; • proporre una serie di convinzioni evolutive, alternative a quelle del destinatario, che lo incoraggino nel cambiamento, che gli permettano di superare limiti e convinzioni, che lo inducano a sperimentare soluzioni e nuove esperienze; • Utilizzare elementi che possano evitare le resistenze consce (ambiguità, citazioni, e alcune volte anche humour); • Ipotizzare, proporre, suggerire soluzioni; La metafora, attraverso l’analogia, guida il soggetto a prefigurarsi, a percepire, a vivere situazioni nuove e risolutive. La guida è l’infrazione del ricalco, ossia il processo con cui una persona smette di riprodurre le scelte comunicative dell’interlocutore, e comincia a condurlo verso la conoscenza della propria mappa mentale, e quindi verso l’adesione ai propri obiettivi. Gli obiettivi che egli si pone di raggiungere e il modo per raggiungerli, le soluzioni proposte, devono essere gestite con assoluta precisione, perché devono tracciare una direzione senza imporla, indicare e guidare senza forzare.Cinque punti significativi per la costruzione di metafore sono:1. visione d’insieme: si parte da un ampio panorama (ricalco situazionale/sociale nell’ideazione dell’analogia)2. problema/bisogno: la visuale si stringe sul problema specifico del lettore (ricalco specifico: sensoriale, di credenze nell’espansione dell’analogia mediante isomorfismo)3. idea/soluzione: una proposta che risolverà quel problema (inizio guida nell’avvicendarsi delle sequenze della metafora)4. evidenze: giudizi che testimoniano l’efficacia di una certa scelta (citazioni corroboranti)5. vantaggi: i benefici specifici per il lettore (ricalco sul futuro nello scioglimento della vicenda narrata)Soprattutto il quinto punto risulta efficace per l’identificazione degli obiettivi nella metafora. Nello specifico della narrazione metaforica entra in gioco la capacità diagnostica e previsionale del costruttore di metafore che aiuta il destinatario a progettare situazioni risolutive e vantaggiose, realistiche, concretizzabili e non illusorie. Le metafore sono “favole” che si traducono in realtà. Gli obiettivi vanno definiti in positivo, conseguenza di comportamenti appropriati, di scelte oculate, risoluzioni prese dai protagonisti della metafora durante lo svolgimento di una vicenda che li ha messi alla prova. La metafora forma e in-forma: da’ “forma a” schemi mentali idonei all’apprendimento di saperi e strategie nuove e “forma in” ambiti più o meno lontani da quelli consueti (ambiti, contesti, situazioni nei quali difficilmente ci si inoltrerebbe se non attratti e “distratti” dal linguaggio metaforico). Il destinatario guarda queste esperienze analogiche fornitegli dalla metafora ed è portato (a livello inconscio) a ri-guardare le proprie esperienze e ad operare nuovi collegamenti, in una continua ristrutturazione e ridefinizione di convinzioni personali che talvolta possono limitare l’evoluzione personale, sociale o professionale. La metafora, dunque, presentando modi diversi di pensare e di agire, funziona solo nel momento in cui riesce ad aumentare la flessibilità del destinatario e a modificare il suo bagaglio di convinzioni. Il cambiamento avverrà se riusciremo ad ampliare le convinzioni positive, correggendo le convinzioni negative.Perciò arricchiremo la metafora di suggerimenti positivi, spinte strategiche, incentivi ad agire, prefiguarazioni di traguardi raggiunti e raggiungibili. E dato che quello che metaforicamente vogliamo fare è trasferire il soggetto da qui a là, dal proprio mondo ad un altro “possibile”,dobbiamo abbattere il confine delle sue convinzioni limitanti (limiti che possono riguardare sé stesso, le proprie capacità, il senso di inadeguatezza, o riguardare il contesto: la paura di sperimentare nuove esperienze, di affrontare nuove situazioni). Allora aiutiamolo a riflettere sul proprio problema-caso, ricreandolo nella narrazione metaforicaaffinchè egli, vedendolo “fuori da sé”, cominci a percepirlo in modo diverso. Attraverso la metafora insinuiamo dubbi, illustriamo sfide, sfidiamo i limiti del destinatario mostrando altri punti di vista, comportamenti e scelte diverse, critiche alluse (gestite da personaggi di sfondo, nascosti nella storia e per questo ancor meno diretti).A questa ristrutturazione cognitiva ne seguirà una emotiva; cambieranno le sensazioni e l’approccio al problema-caso. Cambieranno le aspettative.
Linguaggio metaforico: linguaggio multisensoriale
Attraverso l’uso della metafora viene utilizzata consapevolmente la forza suggestiva delle parole per organizzare e utilizzare le potenzialità della mente inconscia.E’ sempre dal linguaggio ipnotico di Milton H. Erickson che ricaviamo le regole linguistiche per costruire il linguaggio della metafora.Chi ascolta, mentre cerca con la mente conscia il significato logico di quanto sta ascoltando, con la mente inconscia lo connette con le proprie esperienze interne.E’ bene che il terapeuta, sia consapevole della multisensorialità richiesta dai suoi interlocutori, perché il linguaggio produce un vincolo e provoca esperienze virtuali.La metafora funziona se stimola associazioni tra esperienze e situazioni reali ed esperienze e situazioni virtuali; questo avviene se tiene conto dei sistemi di elaborazione di informazioni usati dalle persone per conoscere e rappresentare il mondo.L´uomo, mentre si muove nella realtà, la rielabora a partire dalle informazioni che riceve dai suoi canali d’ingresso: i cinque sensi. Le informazioni sono poi ulteriormente rielaborate dal linguaggio. Così egli si crea una rappresentazione mentale del mondo fatta di immagini, suoni, gusti, odori, sensazioni, sempre frutto di una semplificazione del modello originario.I sistemi rappresentazionali visivo (V), auditivo (A) e cenestesico (K), indicano l’organo sensoriale privilegiato nel raccogliere ed elaborare le informazioni percepite da vista (V), udito (A), e tatto-gusto-olfatto (K).Ognuno di noi può organizzare la propria esperienza in tutti i sistemi rappresentazionali, tuttavia tendiamo a prediligerne uno sugli altri. Questa inclinazione comporta una scelta – inconsapevole, ma accurata – delle parole usate per codificare l’esperienza stessa. Le parole sensorialmente specificate, dunque, esplicitano il processo di percezione che le sottende.Sintonizzarsi sul sistema rappresentazionale dell’interlocutore è un metodo molto efficace per conquistarne la fiducia.Nella produzione linguistica, l’influenza del sistema dominante visivo si manifesta nella scelta di parole che rimandano alla vista: vedere, osservare, chiarire, focalizzare, dipingere, tratteggiare; chiaro, limpido, cristallino, nitido, brillante, oscuro, fosco, torbido; immagine, quadro, scenario, schema, colori, e così via.L’influenza del sistema dominante auditivo si manifesta nel linguaggio con la scelta di parole che rimandano all’udito: ascoltare, sentire, parlare, dire, spiegare, suonare; acuto, sordo, stridulo, forte, piano; campanello d’allarme, dissonanza e così via.Nella scrittura, chi predilige questo sistema rappresentazionale presta in genere molta attenzione anche agli aspetti paraverbali del messaggio: il ritmo, soprattutto. Le allitterazioni, le assonanze, la metrica, la lunghezza delle parole e delle frasi. I respiri e le pause. Le riprese veloci o il fluire tranquillo del testo.Il sistema rappresentazionale cenestesico organizza le percezioni del mondo intorno alle sensazioni tattili, olfattive e gustative. La produzione linguistica è qui caratterizzata da parole che appartengono alla sfera delle sensazioni fisiche e dell’emotività. Le scelte lessicali prediligono verbi come sentire, provare, gustare; aggettivi come caldo, freddo, pesante, concreto; sostantivi come odore, contatto, sapore, sensazione, attrazione.Alcuni studi di programmazione neurolinguistica sostengono che il 40% delle persone è maggiormente visivo, il 40% cenestesico e il 20% auditivo. Per questa multisensorialità il linguaggio metaforico deve essere strutturato in modo tale da riprodurre le modalità linguistiche degli interlocutori siano essi visivi (sollecitiamone l’immaginazione, accompagnando al testo, laddove è possibile, immagini; evochiamo immagini con i termini visivamente specificati), o auditivi (arricchiamo la metafora di allitterazioni, onomatopee, chiasmi), o cinestesici (adoperiamo la sinestesia).Oltre i termini sensorialmente specificati è importante inserire nella metafora operatori modali, nominalizzazioni, verbi non specificati, mancanza di indice riferenziale.Gli ausiliari volere, potere, dovere sono chiamati operatori modali perché non indicano l’azione ma il modo di eseguirla. Aggiungono al verbo principale quella particolare modalità che indica possibilità, volontà, vincoli e competenze correlate all’azione descritta, e vengono usati a seconda che si voglia far emergere dal contesto metafora una limitazione (tu devi, è necessario, bisogna), o una possibilità (tu puoi nella sua duplice accezione di potere e opportunità) o un atto di volontà (tu vuoi, nel senso di volere o pretendere). Le nominalizzazioni sono sostantivi che all’interno di una frase occupano il posto di un nome ma indicano in realtà un processo in corso, una dinamica.Le nominalizzazioni si formano con gli affissi nominalizzatori ione, mento, ità, ismo, tura, ezza, che permettono la trasformazione di un verbo o di un aggettivo in nome.Le nominalizzazioni non sono mai qualcosa di tangibile, di concreto; si tratta di nomi astratti che indicano azioni, stati d’animo ecc. In esse sono state cancellate informazioni che danno senso compiuto al discorso.A livello inconscio si è portati a riconoscere nella nominalizzazione il processo da cui essa è derivata. E’ un’attribuzione del tutto arbitraria e qui sta il gioco forza della comunicazione metaforica: il destinatario attribuirà al messaggio una fisionomia del tutto (o parzialmente) rispondente alle proprie aspettative. I verbi non specificati sono verbi qualitativi che riferiscono azioni elementari eseguibili in modi ed intensità diverse, la cui modalità è lasciata indeterminata e ambigua. Fare, pensare, sapere, capire, provare, rendersi conto, riconoscere, chiedersi, ecc.Nella metafora la modalità delle azioni non vengono né approfondite né esplicitate, perché è il destinatario che deve farlo. La scelta del verbo è importante per l’obiettivo che la metafora vuole raggiungere, per il comportamento che si vuole indurre.La metafora privilegia i termini generici come gruppo, persona, qualcuno, un luogo, una cosa, una volta, mancanti di indice riferenziale, che arricchiscono il discorso metaforico di suggestioni, per cui ognuno può riconoscersi e identificarsi nei personaggi o nelle situazioni della storia.Questa genericità linguistica e contenutistica lascia che sia il destinatario della metafora a riempire i buchi informativi con la propria immaginazione e la personale ricerca di significato associato.
«[…]Torna alle origini e diventa bambino
[i] ll tropo indica qualsiasi figura retorica in cui un´espressione:è trasferita dal significato che le si riconosce come proprio ad un altro figurato,o è destinata a rivestire, per estensione, un contenuto diverso da quello originario e letterale.Nella retorica classica, secondo Lausberg, sono classificati come tropi la sineddoche, l´antonomasia, l´enfasi, la litote, l´iperbole, la metonimia, la metafora, la perifrasi, l´ironia, la metalessi.
[ii] Ad esempio:« Egli è forte come un Leone» è una similitudine; « Egli è un Leone », è una metafora.
[iii] Per campo semantico (o di significato) si intende, in linguistica, un insieme di parole di una stessa lingua che si riferiscono alla stessa area di significati.Ad esempio, il campo semantico di una parola come fiume comprenderà parole in stretta relazione di significato come ruscello, fonte, sorgente, affluente, foce, delta, estuario e simili: queste parole, tutte della stessa classe, devono avere in comune almeno una minima parte di significato per appartenere allo stesso campo semantico. È impossibile stabilire con rigore assoluto quali parole appartengano o meno ad un campo semantico, dato che l´area di significati può essere soggettiva e cambiare di epoca in epoca o da comunità linguistica all´altra. Al campo semantico della città potranno rispondere parole come comune o insediamento e innumerevoli altre.
[iv] BARKER, P., “L’uso della Metafora in Psicoterapia”, Casa Editrice Astrolabio, Roma, 1987. Cit. p15.
[v] KUHN T. (1979),«Metaphor in Science». In: In: A. Ortony (a cura di), Metaphor and Thought, Cambridge University Press, Cambridge [trad. it., La metafora nella scienza. In: R. Boyd, T. Kuhn, La metafora nella scienza, Feltrinelli, Milano 1983. Cit. p.48].
[vi] GAGLIASSO E. (2002), «Usi epistemologici della metafora e metafore cognitive». In: C. Morabito, La metafora nelle scienze cognitive, McGraw-Hill, Milano Cit. p.8.
[vii] Cfr. GORDON, D.., “Metafore Teapeutiche”, Casa Editrice Astrolabio, Roma, 1992.
[viii] Cfr. BARKER. F., “L’uso della Metafora in Psicoterapia”, Casa Editrice Astrolabio, Roma, 1987.
[ix] Erickson Milton H. “La mia voce ti accompagnerà” Casa Editrice Astrolabio, Roma, 1983.
[x] Watzlawick P. “La pragmatica della comunicazione umana.” Casa Editrice Astrolabio, Roma,1967.
[xi]Boscolo L. et Al. “Linguaggio e cambiamento: l’uso di parole chiave in terapia”. Terapia Familiare n. 37. 1991