Pet therapy
La presenza di un animale in casa sembra possa costituire una fonte di piacere e di soddisfacimento del bisogno di amore ed affetto presente in ciascuno di noi, inoltre sembra essere un valido aiuto in situazioni di disagio e difficoltà. Da alcuni anni a questa parte si stanno anche studiando gli effetti che possono derivare dall’utilizzo terapeutico degli animali, la cosiddetta “Pet Therapy” cioè la terapia attraverso l’uso dei animali domestici.
Più nello specifico, con il termine pet therapy (in italiano, zooterapia) s’intende, generalmente, una terapia dolce, basata sull’interazione uomo–animale.
Si tratta di una terapia che integra, rafforza e coadiuva le tradizionali terapie e può essere impiegata su pazienti affetti da differenti patologie con obiettivi di miglioramento comportamentale, fisico, cognitivo, psicosociale e psicologico-emotivo.
La pet therapy non è quindi una terapia a sé stante, ma una co-terapia che affianca una terapia tradizionale in corso. Lo scopo di queste co-terapie è quello di facilitare l’approccio medico e terapeutico delle varie figure mediche e riabilitative soprattutto nei casi in cui il paziente non dimostra collaborazione spontanea. La presenza di un animale permette in molti casi di consolidare un rapporto emotivo con il paziente e, tramite questo rapporto, stabilire sia un canale di comunicazione paziente-animale-medico sia stimolare la partecipazione attiva del paziente.
- COS’E’ LA PET THERAPY?
Il concetto di terapia implica la relazione tra due esseri viventi che di solito sono il medico, o psicoterapeuta, ed il paziente. In tutti questi casi, quindi, la relazione avviene tra due esseri della stessa specie. Non si è mai pensato, fino ad oggi, che anche la relazione tra esseri di specie diverse potesse avere degli effetti curativi. Ognuno di noi avrà qualche storia sugli eccezionali poteri che i nostri beniamini sembrano avere nell’influenzare il benessere fisico e psichico dei loro padroni; la difficoltà sta però nel riuscire a conferire una validità scientifica e clinica a racconti, percezioni, sensazioni e vissuti che purtroppo di scientifico hanno ben poco.
La Pet Therapy è un’area di ricerca relativamente nuova e si propone programmi per l’introduzione graduale e sistematica di animali, selezionati ed addestrati, nelle immediate vicinanze di un individuo, o di gruppi di individui, per scopi terapeutici. Sembra infatti che i benefici effetti degli animali da compagnia su persone normali possano essere tradotti in effetti terapeutici per certi individui disagiati fisicamente o psicologicamente. Ci sono molti motivi a sostegno dell’introduzione della Pet Therapy:
- Gli effetti della Pet Therapy compaiono piuttosto velocemente e possono essere documentati con film e videotape. Del resto chiunque può osservare la gioia sul volto di una persona che tornando a casa trova il proprio cane festoso;
- La Pet Therapy potrebbe interessare tutti coloro che amano gli animali e che potrebbero offrire la loro collaborazione come volontari in eventuali piani per l’introduzione di animali in strutture interessate a questo tipo di terapia;
- Esistono organizzazioni protezionistiche, zoo e canili che fornirebbero gratuitamente gli animali necessari;
- La Pet Therapy conferirebbe uno scopo altamente sociale alla proprietà e alla cura di animali che ancora oggi vengono considerati, troppo spesso, un impegno inutile;
- Molti studi stanno dimostrando che la vicinanza di un cane o di un gatto, ma anche di un pesce o di un canarino, è in grado di modificare parametri fisiologici misurabili, come il battito cardiaco o la pressione sanguigna.
Da quanto detto, la Pet therapy sembrerebbe una terapia facilissima, poco costosa, con risultati immediati e che gode di una approvazione generale. E’ importante comunque non lasciarsi trascinare da facili entusiasmi: nel mondo di oggi, le persone sono abituate a vivere in modo complesso e caotico e questo rende difficile accettare qualcosa di tanto semplice come la vicinanza terapeutica di un animale. E’ più facile relegare il legame uomo – animale da compagnia nella categoria del sentimentalismo e del romanticismo, molto spesso criticata dal razionalismo attualmente dominante (Giacon, 1992).
STORIA DELLA PET THERAPY
La storia della Pet Therapy inizia nel 1792 in Inghilterra quando William Tuke incoraggia i pazienti con disturbi mentali a prendersi cura di animali, intuendo la loro capacità di incentivare l’autocontrollo e l’influenza umanizzante degli animali stessi; mentre nel 1867 in
Germania un istituto per pazienti epilettici inserisce cani, gatti ed altri animali nei suoi programmi terapeutici. Ancora nel 1875 il medico francese Chessigne prescrive l’equitazione a pazienti con problemi neurologici, ritenendola efficace per migliorare l’equilibrio e il controllo muscolare. Nel 1942 in un ospedale di New York vengono utilizzati animali da compagnia e da allevamento per curare feriti di guerra con traumi emozionali. Nel 1952 Liz Hartel, una ragazza poliomielitica, si classifica seconda nella gara di dressage alle Olimpiadi di Helsinki. Questo avvenimento suscita molto interesse e costituisce la spinta decisiva per la diffusione dell’Ippoterapia in tutto il mondo. Pietra miliare nella storia della Pet Therapy è sicuramente stato Boris Levinson il quale nel 1953 scoprì fortuitamente l’azione positiva che la compagnia di un animale poteva avere su un bambino autistico e inizia le prime ricerche sugli effetti degli animali da compagnia in campo psichiatrico. Nel 1961 nasce la terapia con gli animali come la conosciamo oggi. Levinson per la prima volta enuncia teorie plausibili e verificabili che spiegano i benefici della compagnia degli animali nella cura di giovani pazienti. Nel 1970 un ospedale psichiatrico infantile del Michigan adotta un cane come aiuto mentale per i bambini ricoverati. Nel 1975 i coniugi Corson, due psichiatri americani, applicano le teorie di Levinson a pazienti adulti con disturbi mentali; due anni dopo, nel 1977,uno studio di Erika Friedmann rivela l’esistenza di una correlazione positiva tra la sopravvivenza dei pazienti che avevano subito un infarto cardiaco e il possesso di animali da compagnia. Iniziano quindi le prime ricerche volte a verificare le potenzialità del rapporto uomo – animale da compagnia nel ridurre l’ipertensione e il rischio di infarto cardiaco (Ballarini, 1995). A partire dagli anni ’80, i professionisti che usano gli animali per obiettivi terapeutici iniziano a fare una distinzione tra:
- Attività svolta con l’ausilio di animali (AAA): questo tipo di attività aiuta a migliorare la qualità della vita puntando l’attenzione prevalentemente sugli aspetti motivazionali, educativi, ricreativi ed anche terapeutici del rapporto con un animale. L’attenzione è rivolta soprattutto alla gioia di stare insieme e di provare emozioni positive, elementi che possono sicuramente incidere positivamente sulla qualità della vita delle persone coinvolte, ma che sono difficilmente codificabili e misurabili scientificamente. Esistono fondamentalmente due tipi di attività svolte con l’ausilio degli animali: un primo tipo è caratterizzato da attività passive; in questo caso si possono introdurre negli ambienti di vita dei pazienti degli acquari o delle voliere, la cui semplice presenza ha un effetto calmante ed anti depressivo; il secondo tipo di attività è caratterizzata dall’interazione vera e propria con gli animali che entrano a far parte del programma riabilitativo, come nel caso dell’inserimento di gatti o di cani di piccole dimensioni nelle prigioni o nelle comunità terapeutiche;
- Terapia effettuata con l’ausilio di animali (AAT): è una vera e propria terapia guidata da specifici obiettivi e che utilizza gli animali da compagnia come parte integrante del processo terapeutico. La terapia deve essere condotta da professionisti con una specifica preparazione. Gli obiettivi possono essere legati alla necessità di incentivare o ridurre al minimo specifici comportamenti. Gli animali vengono utilizzati in contesti molto diversi come le prigioni, gli ospedali, l’ambiente di vita quotidiana di disabili fisici e psichici (Burch, Fredrickson, 1995).
Nel 1981 negli Stati Uniti viene fondata la “Delta Society”, associazione che studia l’interazione uomo – animale e gli effetti terapeutici legati alla compagnia degli animali. Nel 1987 la Pet Therapy arriva anche in Italia, mentre nel 1990 nasce il C.R.E.I. (Centro di Ricerca Etologica Interdisciplinare per lo studio del rapporto uomo – animale da compagnia) che collega discipline relative alla salute umana e animale, all’ambiente e al comportamento. Negli ultimi dieci anni in Italia e all’estero la ricerca è proseguita e con essa sono nati molti centri che applicano con successo la Pet Therapy (Ballarini, 1995).
1.2 APPLICAZIONI DELLA PET THERAPY
GLI ANIMALI COME AIUTO AI BAMBINI
Ogni bambino sogna di avere come compagno di giochi un grosso cane o un morbido gattino e spesso i genitori accettano di farsi carico di questo nuovo membro della famiglia perché ritengono possa essere utile per lo sviluppo psico-fisico del proprio figlio. Tuttavia, solo recentemente la ricerca scientifica ha iniziato ad occuparsi degli effetti della relazione tra un bambino ed un animale da compagnia. Come abbiamo già visto, il primo che si occupò di questa specifica relazione fu Boris Levinson, il quale stava lavorando con poco successo con un bambino autistico. Un giorno entrò per errore nello studio il suo cane ed il bambino iniziò ad interagire con l’animale e a parlare con il terapeuta: cosa che Levinson stesso non era mai riuscito ad ottenere. Nonostante non sia facile condurre esperimenti scientificamente validi in questo campo, alcuni ricercatori hanno cercato di capire se la presenza di un animale da compagnia possa avere una qualche influenza sullo sviluppo dei bambini (Endenburg, Baarda,1995).
SVILUPPO SOCIALE ED EMOTIVO
Il senso di autostima è ormai riconosciuto come un elemento fondamentale per lo sviluppo sociale ed emotivo dei bambini: se in casa è presente un animale, tutti i membri della famiglia sono portati a prendersi cura di lui, ognuno secondo le sue possibilità, in questo modo il bambino impara a prendersi cura di un altro essere vivente, acquisisce nuove competenze, senso di responsabilità nei confronti del suo animale e aumenta l’autostima in quanto capisce di essere in grado di fare da solo, senza dover sempre chiedere aiuto a mamma e a papà. E’ importante che i genitori si rendano conto di questo aspetto e che responsabilizzino il bambino, sempre secondo le sue possibilità, a prendersi cura del suo animale da compagnia. Un altro aspetto molto importante è legato all’empatia, cioè alla capacità di capire cosa provano le persone che abbiamo vicino: è stato possibile evidenziare che l’interazione con un animale che dipende in tutto e per tutto dagli uomini, insegna ai bambini a capire le emozioni e i bisogni degli animali e di conseguenza delle persone con cui interagiscono. L’animale da compagnia svolge anche un’importante ruolo di supporto sociale ed emotivo, gli animali ci fanno sentire incondizionatamente accettati: non giudicano quello che diciamo e come ci comportiamo, loro ci amano e basta. Questa forma di amore senza alcuna condizione è molto importante per i bambini, anche se è altrettanto importante non sostituire mai le persone con gli animali. Molti genitori ammettono che avere in casa un animale da compagnia è un’utile spunto educativo su quello che è il ciclo della vita: un bambino che ha in casa un animale, con buona probabilità dovrà sperimentare il triste evento della sua morte e alcune volte anche il lieto evento della nascita di nuovi cuccioli. Come avremo modo di vedere più avanti, la morte dell’animale da compagnia, con il quale si è vissuto in media 10-12 anni, è sicuramente molto dolorosa, ed è importante che i genitori siano capaci di parlare apertamente con i figli dei sentimenti che stanno provando. Imparare ad affrontare il dolore per la morte di un animale a cui si voleva bene è importante e i genitori devono aiutare il bambino in questo difficile compito, inoltre devono riuscire a fargli capire che è normale provare questi sentimenti. Dall’altro lato, un bambino che ha in casa un animale può anche vivere l’eccitante esperienza della nascita di nuovi cuccioli; questo è un altro importante momento educativo che i genitori devono saper cogliere per spiegare ai figli da dove inizia la vita e come si sviluppa (Endenburg, Baarda, 1995).
UN AIUTO ALLA COMUNICAZIONE
Come abbiamo già avuto modo di vedere, quando si parla di comunicazione ci si riferisce non solo all’aspetto verbale, ma anche alla componente non verbale, tanto importante quanto dimenticata e sottovalutata come meccanismo di comunicazione. E’ infatti superficiale confinare il ruolo della comunicazione non verbale alla sola relazione uomo – animale. Resta pur sempre vero che nell’interazione con un animale il linguaggio del corpo viene attivato in modo volontario e consapevole, mentre nel rapporto con un’altra persona questo tipo di comunicazione è prevalentemente inconscio ed incontrollato. Quindi l’interazione tra un bambino e il suo animale è molto importante perché, attraverso l’elaborazione di un linguaggio non verbale, stimola lo sviluppo e l’arricchimento dei meccanismi di relazione e del comportamento sociale: il contatto sociale con un animale da compagnia aiuta il bambino a sviluppare la capacità di individuare ed interpretare correttamente i segnali non verbali presenti nelle interazioni sociali umane (Ballarini, 1995).
L’ANIMALE COME LUBRIFICANTE SOCIALE
Come avremo modo di vedere meglio più avanti, per molte persone la presenza di un animale nella loro vita ha un’importante funzione di lubrificante sociale, dal momento che l’animale con la sua sola presenza è in grado di aumentare i contatti sociali tra le persone. Per esempio, un bambino che passeggia con il suo cane attira più facilmente l’attenzione degli altri bambini e questo rende più facile fare amicizia e giocare insieme. Da alcuni studi è emerso che i bambini che hanno un animale sono significativamente più popolari nella loro classe rispetto ai bambini che non hanno un animale (Endenburg, Baarda, 1995).
L’IMPORTANZA DEL GIOCO
Il gioco è l’elemento fondamentale nella relazione bambino – animale ed è in esso che l’animale viene ad assumere un ruolo simbolico: nel gioco, il bambino utilizza un oggetto esterno (l’animale) che diventa per lui una rappresentazione dell’ambiente felice in cui era fuso con la madre, ma al tempo stesso l’animale è separato dal corpo, è qualcosa di diverso dal bambino e che fa parte del mondo esterno. Attraverso il gioco il bambino agisce e si confronta con la realtà che lo circonda, il gioco permette al bambino di esprimere la sua creatività. Esistono in particolare due giochi fatti spesso dai bambini piccoli e nei quali l’animale può assumere un ruolo simbolico:
- Lanciare un oggetto: uno dei giochi preferiti dei bambini piccoli è quello di lanciare degli oggetti che ha a portata di mano e che poi gli vengono riportati dall’adulto. L’animale, in particolare il cane, rientra bene in questo contesto grazie al suo istinto innato di riportare gli oggetti che gli vengono lanciati. Attraverso questo gioco, il cane e il bambino si collocano sullo stesso livello di comunicazione complementare: da una parte il bambino lancia un oggetto e lo vede ritornare a sé, dall’altra il cane in base all’istinto ha bisogno di recuperare.
- Camminare trascinando una corda con appeso un oggetto: quando il bambino impara a camminare diventa consapevole di aver definitivamente rotto il legame di dipendenza dalla madre e di essere separato da lei. Per questo motivo attiva una proiezione della propria separazione cercando un compromesso tra dipendenza ed indipendenza: camminare trascinandosi dietro una corda al cui capo opposto sta un oggetto che a livello psicologico rappresenta il bambino stesso. Anche in questo caso il cane può assumere un ruolo attivo perché correndo o rallentando proietta nel bambino l’immagine di un’altra possibilità: quell di esplorare e di essere autonomi, dal momento che non è legato all’altro capo della corda (Del Negro, 1998).
PSICOTERAPEUTI A QUATTRO ZAMPE
Anche gli adulti possono avvantaggiarsi dell’effetto psicoterapeutico degli animali, in situazioni che vanno da stati di solitudine e di isolamento all’infelicità, dagli atteggiamenti negativi di dipendenza e di rabbia alle sindromi depressive. Le prime applicazioni della Pet Therapy in adulti con disturbi mentali risalgono agli anni ’70. Ballarini (1995) riporta l’esperienza di due psichiatri americani, i coniugi Corson; i quali ripresero con successo negli adulti le esperienze che Levinson aveva fatto con i bambini. All’interno del centro per adolescenti con disturbi mentali per il quale lavoravano erano ospitati alcuni cani che venivano utilizzati per sperimentare nuovi farmaci. Di frequente capitava che alcuni ospiti del centro, tra i meno loquaci, chiedessero al personale l’autorizzazione di giocare con i cani. In questo modo i Corson si resero conto che gli animali esercitavano una certa attrazione nei confronti dei malati mentali; fu così che decisero di provare ad applicare la Pet Therapy anche a pazienti adulti. Permisero ai pazienti di scegliere, in funzione del loro stato d’animo, un cane particolare o un altro animale ospitato nel canile adiacente all’ospedale: i cani di piccola taglia risultarono più utili per le persone depresse e isolate, mentre i cuccioli sembravano più indicati per i ritardati mentali. La valutazione fatta alla fine di questa esperienza ha mostrato che i pazienti dialogavano di più tra di loro e con il personale dell’ospedale, inoltre i cani coinvolsero i pazienti in attività prima ignorate come fare una passeggiata o una corsa insieme. La Pet Therapy aiutò i pazienti a sviluppare un’immagine positiva di sé stessi, a migliorare l’autostima e la loro indipendenza. E’ fondamentale sottolineare che i cani non si sostituivano alle altre terapie, erano piuttosto uno strumento aggiuntivo che facilitava i processi di ri – socializzazione.
ALCUNE APPLICAZIONI
Gli animali sono risultati efficaci nella cura e nella prevenzione di situazioni di disordine psicologico. E’ stato inoltre dimostrato che il possesso di un animale può avere un effetto positivo sulla suscettibilità dell’uomo a malattie mentali, può intervenire nel ridurre lo stress e la tensione psichica. In altre parole, la presenza di un animale risulta positiva per il morale, riduce il livello di ansia, stimola a reagire, dona la sensazione di sentirsi utili e soprattutto facilita i rapporti interpersonali (Ballarini, 1995). Sulla base di quanto detto, sono numerosi i disturbi mentali che possono trarre giovamento dalla presenza di un animale familiare:
- Disturbi dell’umore: quando sono presenti delle forme bipolari con episodi maniacali, l’affido di un animale è sconsigliabile, però nel caso di disturbi depressivi veri e propri può essere molto utile affiancare alla cura farmacologica un animale ben accettato dal paziente. Vediamo alcuni sintomi che tendono a migliorare: avere in casa un animale affettuoso che cerca il suo padrone può lenire l’apatia e il disinteresse; l’animale non giudica e dimostra sempre e comunque interesse e stima per il suo padrone; la presenza di un animale in casa che dipende in tutto e per tutto da noi stimola a mantenersi attivi e vitali: bisogna preparare da mangiare, fare la spesa, portarlo a spasso, questo aiuta a recuperare un contatto vitale con il mondo esterno (Del Negro, 1998). La depressione è una malattia in continuo aumento e sempre più persone si rivolgono alle pillole per uscirne, per questo è importante non sottovalutare la possibilità di una cura “dolce” attraverso l’uso degli animali che consente almeno la riduzione della somministrazione di farmaci. Gli animali possono quindi costituire un valido ausilio terapeutico e, salvo rare controindicazioni, privo di effetti collaterali dal momento che agisce attraverso il rapporto esclusivo che l’uomo instaura con l’animale (Ballarini, 1995);
- Sindromi ansiose: anche in questo caso il trattamento con gli animali può diventare un utile supporto alle terapie farmacologiche. Molto spesso queste patologie comprendono una componente fobica, in questo caso l’introduzione di un animale presenta maggiori difficoltà (Del Negro, 1998).
PET THERAPY NEGLI ANZIANI
La nostra società sta lentamente cambiando aspetto dal momento che le persone vivono più a lungo e sono in notevole calo le nascite. La famiglia si è allargata evidenziando in questo modo le problematiche legate all’anziano che spesso trascorre le sue giornate in una lenta monotonia. Inoltre oggi si diventa vecchi prima rispetto al processo naturale poiché la struttura sociale esclude forzatamente dalla vita produttiva chi giunge all’età senile: in questo modo molte persone concludono la loro esistenza in condizioni di segregazione. Il notevole prolungamento della vita media non ha solo conseguenze di tipo demografico, ma porta alla ribalta il problema della qualità della vita dell’anziano. E’ importante evidenziare che l’invecchiamento non implica necessariamente l’insorgenza di problemi psicologici, sanitari, economici e sociali: l’invecchiamento deve entrare nella nostra cultura come un processo fisiologico e quindi normale, non come una forma di patologia. Per comprendere meglio quale può essere l’impiego degli animali in età senile è necessario fare una parentesi sugli aspetti psicologici dell’uomo anziano. Con l’avanzamento dell’età aumentano i disturbi fisici che possono limitare notevolmente l’autosufficienza e aggravare la dipendenza dagli altri. Tutto questo può portare ad un senso di tristezza e di incomunicabilità, inoltre gli anziani sono poco inclini alle novità e spesso soffrono di labilità dell’umore. Nell’età senile, quindi, il sommarsi di fattori psicologici individuali, di fattori ambientali e sociali è in grado di scatenare uno stato di depressione. Questa situazione può essere notevolmente aggravata dalla morte del coniuge, di amici e conoscenti: l’anziano si lascia andare sia fisicamente che psicologicamente e avverte un senso di malessere generalizzato, vive in estrema trascuratezza e perde la stima di sé. Nonostante i figli, spesso l’anziano vedovo è costretto a vivere da solo oppure viene inserito in istituti o case protette che forniscono assistenza medica qualificata ma finiscono per spersonalizzare l’individuo (Del Negro, 1998).
In un simile quadro, l’animale diventa il compagno ideale per l’anziano. Dal punto di vista psicologico, il rapporto tra l’anziano e l’animale da compagnia contribuisce a ripristinare nell’anziano sentimenti di protezione e di cura: avendo l’animale domestico bisogno dell’uomo per tutte le sue funzioni vitali, rende il padrone anziano una persona ancora utile se non indispensabile. L’animale da compagnia agisce poi come un vero e proprio supporto sociale facilitando l’integrazione, favorendo i contatti con gli altri e inducendo il desiderio di conoscere, parlare e condividere. La compagnia di un cane o di un gatto soddisfa inoltre il bisogno di comunicare sia attraverso il linguaggio verbale che con il linguaggio non verbale. Non bisogna dimenticare poi che il cane è il mezzo più efficace e sicuro per costringere il padrone a fare attività fisica (Ballarini, 1995). In questi ultimi anni si stanno sviluppando molti programmi per l’inserimento di animali da compagnia nella vita di persone anziani che vivono da sole o in istituti.
ANZIANI ED ANIMALI IN CASE DI CURA
In alcuni istituti americani per persone anziane si iniziano a trovare anche animali ivi residenti. I primi istituti che hanno acconsentito all’introduzione degli animali hanno scoperto che molte persone anziane avrebbero considerato con maggiore interesse la possibilità di ricoverarsi se avessero avuto il permesso di portare con sé i propri beniamini: essere inseriti in una casa di cura è di per sé un evento stressante dal momento che spesso comporta lo sradicamento dal proprio ambiente di vita e un radicale cambiamento di abitudini; se poi questo comporta anche la forzata separazione dal proprio animale e le relative preoccupazioni sulla sua futura sistemazione; è facile capire quale importanza possa avere per il benessere psicologico, e quindi anche fisico del paziente, l’opportunità di tenere con sé il proprio amato compagno (Hart, 1995).
Inoltre alcune case di riposo, riconoscendo il valore degli animali non solo nei riguardi dei proprietari, ma anche dei loro vicini, permettono di rimpiazzare gli animali che sono morti se il proprietario ha dimostrato di essersi preso cura del primo animale. In questo modo il vantaggio non è solo per il proprietario e per il suo animale, ma per tutto l’istituto che ne riceve stimoli emotivi e sociali. Il problema consiste nel fatto che spesso la potenziale utilità di un animale che opera nelle case di riposo per anziani non è riconosciuta dal personale: per questo motivo è utile informare ed incentivare l’inserimento di animali i quali, in breve tempo, diventano motivo di piacere e di soddisfazione nonché stimolo ad esercitare una maggiore attività fisica (Ryder, 1985).
ANIMALI NELLE PRIGIONI
Per capire in che modo e perché gli animali possano diventare validi strumenti di terapia in un carcere o in un riformatorio, è importante prima di tutto cercare di capire quali sono i problemi che queste istituzioni vivono al loro interno.
- Un problema comune ad ogni struttura di isolamento è che il tempo non passa mai: queste persone hanno tanto tempo che però non sanno come occupare. Infatti la maggior parte delle ore della giornata sono a disposizione del detenuto che le può impiegare passeggiando lavorando o partecipando ai corsi di recupero: alcuni detenuti non possono però lavorare e in molti istituti non ci sono corsi a cui partecipare. Così noia, senso di inutilità e monotonia diventano un appuntamento quotidiano;
- Un altro problema della vita in prigione è la mancanza di comunicazione, specialmente tra detenuti e guardie di custodia;
- Si presenta anche il problema della carenza di legami affettivi: ci sono i momenti per i colloqui, ma non sono sufficienti a colmare il vuoto affettivo dei detenuti.
In un simile contesto di solitudine, depressione e assenza di autostima l’utilizzo di animali è sicuramente molto efficace: costituiscono un modo per impiegare il tempo, favoriscono le interazioni tra le persone, facilitano il dialogo e la collaborazione, donano affetto ed inoltre restituiscono fiducia e trasmettono alla società un’immagine più positiva del carcerato (Ballarini, 1995).
QUALCHE IPOTESI PER IL RECUPERO
Gli animali presenti negli istituti di pena possono essere utilizzati in diversi progetti terapeutici ed anche riabilitativi:
- Creazione di situazioni terapeutiche in cui si accentua il sentimento sociale del soggetto: ricevere un piccolo animale in affido significa doversi occupare di un essere vivente con esigenze proprie, con specifici ritmi fisiologici che vanno rispettati e con proprie modalità di comunicazione a cui ci si deve adattare;
- Passaggio dall’affido all’adozione: significa ricevere una valutazione positiva della propria condotta e quindi ridurre, anche se solo momentaneamente, il senso di inadeguatezza in cui molti detenuti vivono. Chi vive in carcere prova un costante senso di fallimento in tutti i settori della vita, quindi riuscire nel rapporto con un animale può essere il primo passo di un lento processo di ricostruzione della propria esistenza;
- Riduzione della distanza tra se e gli altri: le persone in carcere spesso si chiudono in se stesse e maturano un atteggiamento di difesa – offesa verso l’ambiente circostante. Accarezzare o tenere in braccio un piccolo animale significa tenere aperto un canale affettivo verso il mondo esterno, può essere la base per il recupero ed il reinserimento sociale (Del Negro, 1998);
- In carcere si possono anche promuovere dei corsi per l’addestramento di cani per l’assistenza agli handicappati, questo rende i detenuti utili alla società ed aumenta la loro autostima. Inoltre per essere un buon addestratore di cani bisogna avere un atteggiamento positivo: il cane percepisce se viene addestrato da una persona nervosa o arrabbiata e non riesce a lavorare bene, questo porterà a risultati decisamente scadenti (Ballarini, 1995).
QUALI ANIMALI PER IL TRATTAMENTO DEI DETENUTI?
Gli animali in carcere forniscono stimoli affettivi ed hanno effetto ansiolitico, inoltre possono funzionare come mediatori dell’eccessiva aggressività che spesso si ritrova in questi luoghi di detenzione e possono migliorare l’immagine di sé del detenuto, in quanto le attenzioni di un animale lo fanno sentire degno di amore e stimolano il suo senso di protezione verso un essere piccolo ed indifeso che dipende totalmente da lui. Gli animali non fanno domande ed accettano le persone che li prendono con sé senza tentare di modificarne gli atteggiamenti e i comportamenti. E’ importante che il detenuto scelga autonomamente l’animale di cui occuparsi e inoltre occorre verificare se davvero intende occuparsene: una forzatura in questo senso potrebbe essere controproducente dal punto di vista riabilitativo. Gli animali da dedicare ai detenuti, o comunque a coloro che vivono in situazioni di particolare isolamento, devono essere animali che si possono tenere in braccio ed accarezzare: per questo motivo è molto importante ricordare che non tutti gli animali sono adatti e quindi si devono selezionare con cura i soggetti che verranno introdotti nel carcere.
Sicuramente i piccoli animali da gabbia e da voliera (volatili e piccoli roditori) possono essere utilizzati senza grossi problemi, sono animali che garantiscono una buona compagnia e possono anche essere addomesticati tanto da essere tenuti parecchio tempo fuori dalla gabbia. I pesci, nonostante siano compagni molto silenziosi, forniscono uno stimolo visivo anti depressivo trasmettendo immagini di quiete e serena tranquillità. Sicuramente i cani sono gli animali che socializzano in modo più diretto con l’uomo, per questo il cane è il compagno ideale per persone che vivono in solitudine e staccate dalla società. Non bisogna però dimenticare che hanno dei bisogni fisiologici e funzionali che non sempre sono adatti alla vita di cella: nel caso si decida di introdurre questi animali in un carcere, è importante predisporre una struttura esterna che permetta a cane e detenuto di muoversi liberamente, giocare e per il cane di soddisfare i propri bisogni fisiologici. Infine, i gatti sono molto più indipendenti dei cani e soprattutto più puliti, inoltre si adattano bene alla vita al chiuso, anche se non disdegnano una passeggiatina tra i tetti e i giardini. Nonostante partecipi poco alla vita del suo padrone, anche il gatto conserva affetto per l’uomo (Del Negro, 1998).
PET THERAPY NELLE MALATTIE DEL CORPO
Non è possibile negare che la compagnia di un cane, di un gatto o di altri animali domestici contribuisca a farci sentire meglio: gli effetti psicologici del legame uomo – animale sono stati ampiamente documentati nelle pagine precedenti. A questo punto, vogliamo vedere se la presenza di un animale familiare possa apportare benefici anche sul piano fisico. E’ stato dimostrato da molte ricerche che la Pet Therapy può essere una valida cura anche per le malattie più propriamente somatiche dell’uomo. Tutti conosciamo l’efficacia di una passeggiata all’aria aperta per mantenere efficiente la circolazione, per aiutare la digestione o per stimolare l’intestino: avere un cane è un buon modo per tenersi in attività. Tuttavia negli ultimi anni sono stati osservati degli effetti favorevoli per la salute anche nei padroni di criceti, tartarughe, pesci ed uccelli (Ballarini, 1995).
GLI AMICI DEL CUORE
Erika Friedmann (Robinson, 1995) ha condotto una ricerca il cui obiettivo era di conoscere gli effetti che possono avere le condizioni sociali e l’isolamento sulla sopravvivenza delle persone già colpite da un infarto. Per questo seguì da vicino un gruppo di persone ricoverate in ospedale dopo un attacco cardiaco. Attraverso l’analisi dei dati raccolti, la ricercatrice voleva individuare eventuali abitudini nella vita sociale che potevano aver influenzato la loro sopravvivenza. Da questa analisi emerse che i contatti sociali erano un fattore importante. Fece però anche una sorprendente scoperta: la sopravvivenza dei pazienti era correlata in modo significativo anche al possesso di animali da compagnia: chi aveva un animale in casa aveva maggiori probabilità di vivere più a lungo dopo un infarto. Inoltre ciò non era imputabile all’esercizio fisico indotto dalla presenza di un cane, poiché anche i proprietari di altre specie animali avevano avuto analoghi benefici. La presenza di un animale d’affezione sembra incrementare la longevità e diminuire il pericolo di malattie (Giacon, 1992). Altre ricerche hanno messo in luce che la presenza di un animale da compagnia interviene in modo favorevole sulla pressione arteriosa dell’uomo; si è inoltre visto che non è necessario che l’animale venga toccato, è sufficiente che sia presente nella stanza, basta guardarlo (Ballarini, 1995).
UN ANIMALE CONTRO STRESS ED ANSIA
Una parola molto di moda oggi è stress. Ad esso si attribuiscono oltre alla depressione anche l’esaurimento nervoso ed una varietà di disturbi psicosomatici. Alla base di questa vera propria malattia ci sono le frustrazioni e le competizioni nei rapporti sociali e sul lavoro e ritmi troppo accelerati. In un simile contesto gli animali possono offrire un aiuto importante all’uomo, agendo come moderatori tra questa disarmonia e la salute: è dimostrato che le relazioni sociali aiutano a sopportare situazioni di stress sia fisico che psicologico, anche la compagnia degli animali può aiutarci ad affrontare meglio lo stress. In altre parole: la relazione con animali da compagnia si è rivelata un’efficace medicina nella profilassi e nella terapia di situazioni quotidiane di stress (Ballarini, 1995).
UNA RILASSANTE VISIONE
I pesci d’acquario sono animali da compagnia molto diffusi e, sebbene la loro alimentazione sia una parte importante delle attività associate al loro allevamento, per la maggior parte del tempo essi fungono da piacevole stimolo visivo. L’influenza di questo stimolo è stata studiata per la prima volta osservando che la contemplazione di un acquario aveva effetti importanti sulla pressione del sangue: l’osservazione dei pesci ha effetti ansiolitici ed ipotensivi (Katcher, 1985). Nel corso degli anni sono stati fatti molti esperimenti per verificare l’effetto che poteva avere l’osservazione di un acquario; i parametri fisiologici che venivano monitorati erano: ritmo cardiaco e pressione del sangue. In tutti i casi si è osservato un abbassamento dei parametri associato ad uno stato di rilassamento indotto dalla visione dei pesci che nuotano tranquilli nell’acquario (Ballarini, 1995). Per spiegare questi risultati è stata proposta l’ipotesi secondo cui la presenza di pacifici organismi viventi riduce l’ansietà e lo stress in quanto la percezione visiva ed uditiva di piante ed animali non disturbati ha sempre costituito per l’uomo un senso di sicurezza (Katcher, 1985). E’ proprio per questi motivi che, sempre più spesso, negli studi medici, e in particolare dentistici, vengono introdotti degli acquari: la contemplazione dell’acquario sembra avere un effetto ipnotico sui pazienti che devono sottoporsi ad un piccolo intervento chirurgico producendo in essi un notevole rilassamento (Ballarini, 1995).
L’ambientamento alla scuola dell’infanzia e il sostegno alla genitorialità
L’ambientamento alla scuola dell’infanzia rappresenta indiscutibilmente un momento molto delicato per il bimbo e per la sua famiglia.
Per i bambini significa vivere un’intensa separazione (spesso per la prima volta), adattarsi a un nuovo ambiente tutto da scoprire, costituito da altri bimbi e da adulti sconosciuti e scandito da tempi e abitudini diversi. Anche per i genitori l’approccio con la scuola non è sempre facile: con la consuetudine e la costruzione di un rapporto di fiducia con gli educatori, i quali devono essere sempre a disposizione delle famiglie.
Prima di addentrarci nel discorso vero e proprio ambientamento del bambino a scuola parliamo un attimo di genitorialità .
L’arrivo di un figlio comporta un radicale cambiamento nella coppia che compie una transazione ossia processo complesso e delicato che porta la coppia a diventare coppia genitoriale. La transizione, come sempre, porta con sé una crisi. Tale crisi non è necessariamente sinonimo di problema o addirittura di patologia ma è sinonimo di cambiamento e il cambiamento, quasi sempre, implica possibilità e rischi.
La nascita di un figlio comporta una serie di importanti modificazioni per la coppia:
– Le cure di cui un bambino piccolo necessita di norma richiedono tempi significativi che prima la coppia dedicava a se stessa e al proprio tempo libero.
Il tempo per stare insieme, divertirsi, rilassarsi, dopo l’arrivo di un figlio si riduce drasticamente.
– Prima della nascita di un figlio la coppia ha come unica responsabilità il sostentamento, il mantenimento e la sopravvivenza di sé stessa. Con la nascita di un figlio il carico di responsabilità sulle spalle dei genitori aumenta notevolmente e con esso possono aumentare anche la paura di non farcela a sostenere tale carico e la sensazione di “perdita di libertà”.
Con il diffondersi della famiglia nucleare a scapito di quella patriarcale, per ovvie ragioni legate a dinamiche socioeconomiche e alla mobilità territoriale delle giovani coppie che vivono lontano dalla famiglia d’origine, la coppia genitoriale si trova a dover affrontare le sue nuove importanti responsabilità praticamente da sola. Le strutture di supporto sul territorio sono un utile supporto alla famiglia.
– Il post partum è un momento estremamente difficile per la mamma. Di norma compaiono malinconia e una certa tristezza e questo essenzialmente per ragioni sia psicologiche che biologiche. L’accudimento di un figlio può rappresentare per una donna un compito umano troppo difficile verso il quale si sente completamente sguarnita. E’ più che normale sentirsi impreparati e preoccupati ad affrontare tale compito ma spesso tale preoccupazione determina una sorta di “paralisi” ad agire, ad occuparsi del proprio bambino, a curarlo e coccolarlo e un sentimento di dolorosa inadeguatezza. Ciò che ne deriva è uno stato di tristezza profonda che spesso sfocia in una vera e propria depressione. La vita della coppia evidentemente risente di tutto ciò in maniera molto significativa.
Con l’arrivo di un figlio, l’attenzione delle mamme viene catalizzata quasi interamente dal bambino e dal suo accudimento e questo, spesso, fa si che i papà si sentano trascurati ed estromessi dal rapporto privilegiato tra madre e bambino. Sempre più spesso, però, accade di assistere all’esatto contrario, ovvero papà che diventano un tutt’uno con il loro nuovo ruolo di genitori e mamme che soffrono perché si sentono trascurate e messe da parte.
Come fare per far sì che questo delicato passaggio di vita possa costituire per la coppia un momento in cui ritrovarsi anziché perdersi? Non è un compito semplice. Non lo è in quanto ciò che è realmente determinante in questo processo è l’equilibrio che la coppia aveva stabilito prima della nascita di un figlio. E’ evidente che una coppia che funzionava in maniera problematica già prima del lieto evento rischia molto più di una coppia che, invece, aveva conquistato un buon funzionamento complessivo.
- Sforzarsi di trovare del tempo per la coppia
Può sembrare impossibile farlo quando in due, oltre a lavorare, ci si deve occupare di un neonato ma è di fondamentale importanza che la coppia si ritagli uno spazio proprio nel quale il bambino non c’è o è sullo sfondo. La coppia dovrebbe vivere questo spazio come un appuntamento (quotidiano, settimanale ecc.) irrinunciabile da pianificare a tutti i costi. - Perdonarsi per le proprie paure
Avere paura di mettere al mondo un figlio e di accudirlo è la cosa più normale del mondo. Non c’è nulla di male o di patologico nell’avere paura, anzi, la paura ci serve per mettere in campo tutte le nostre risorse per svolgere al meglio i compiti difficili. Quando pensiamo di non farcela spesso stiamo sottostimando le nostre capacità e sovrastimando il pericolo. Pensiamo a tutte le volte che abbiamo avuto paura di qualcosa e poi ci siamo detti, dopo aver affrontato questo qualcosa, che forse non c’era da avere così tanta paura. Inoltre, sforziamoci di riflettere sul perché proprio noi non dovremmo farcela? - Chiedere aiuto e sfruttare i servizi offerti (sezione primavera, asilo nido )
Quando il peso dei problemi e delle difficoltà quotidiane diventa insostenibile è bene allentare la tensione e lasciarsi aiutare. Chiedere aiuto non è sempre facile, a volte la coppia ha la sensazione di dovercela fare da sola a gestire un bambino e sente che chiedere aiuto rappresenti una sorta di piccolo fallimento. In altri casi la coppia può temere di essere di peso se chiede aiuto e così facendo si priva della possibilità di scoprire che a volte genitori, amici e parenti sono ben contenti di rendersi utili. - Mettersi in testa che I genitori perfetti non esistono
E’ quello che ogni neogenitore dovrebbe ripetere a sé stesso tutte le volte che si sente inadeguato o teme di poter sbagliare con il proprio figlio. Sentirsi preoccupati e paralizzati dalla paura di sbagliare è normale, specie quando nostro figlio è il primo nato ma questo non fa di noi genitori inadeguati o inetti.
Un valida parentesi da aprire l’inserimento per il bimbo
Con il termine inserimento si definisce l’inizio dell’esperienza del genitore, del bambino e dell’educatore nel momento dell’ingresso a scuola; nella dimensione familiare si introducono elementi nuovi: ambienti, persone, orari e modalità relazionali diverse. Per la prima fase di “impatto” è necessaria la presenza di uno dei due genitori con modalità e tempi che verranno decisi dalle educatrici insieme ai genitori in base alle reazioni del bambino. è un momento molto coinvolgente dal punto di vista emotivo per tutti i soggetti che vengono coinvolti. Non esiste un’unica soluzione per portare a “buon fine” l’ambientamento, esistono diverse strategie per idiversi bambini.
Il punto di vista dell’educatrice o insegnate
Anche per le educatrici/insegnati con anni di esperienza l’ambientamento rappresenta un momento di grande impegno emotivo e relazionale, dove sembra che conoscenze teoriche e anni di esperienza non bastino a cogliere la complessità che ogni bambino diverso nella sua unicità porta con sé. Ogni bambino, ogni famiglia costituisce una novità e una “risorsa” con cui entrare in sintonia. Non è facile conoscere i bisogni dei bambini e costruire una relazione significativa. È un processo che va ben oltre il momento dell’ambientamento e si costruisce lentamente sulla base di una fiducia e grazie ad una comunicazione costante.
In questa fase, così come per tutta la permanenza del bimbo nella scuola dell’infanzia, è necessaria una forte collaborazione tra genitori ed educatrici che in termini concreti significa: – scambio reciproco di informazioni, che permetta alla famiglia di sapere e capire com’è organizzata la scuola e quale progetto educativo vi è alla base e alle educatrici di entrare meglio in contatto con i bisogni del bambino e della famiglia – assicurare continuità tra casa e scuola, cercando insieme soluzioni per le situazioni che via via si presentano e per affrontare in modo coerente le problematiche legate all’educazione.
Il punto di vista del bambino
- Che cosa significa l’inserimento per il bambino?
La psicologia dell’età evolutiva ha dedicato, negli ultimi trent’anni, una crescente attenzione alle prime fasi dello sviluppo sottolineandone la precocità di molte acquisizioni. Si è scoperto che il bambino, fin dai primi momenti di vita, è competente ed attivo nei confronti dell’ambiente circostante, e dotato di capacità proprie.
Nello sviluppo affettivo e cognitivo del bambino viene riconosciuta grande importanza alla socialità intesa sia come sviluppo di rapporti di attaccamento nei confronti di adulti significativi (genitori ma anche figure di accudimento), sia come relazione sociale con i coetanei che inizia fin dalla prima infanzia. Quindi entrare al a scuola per il bambino significa:
– conoscere spazi e persone mai viste prima;
– abituarsi ad un’organizzazione della giornata diversa da quella di casa;
– imparare a stare bene anche lontano dai genitori;
– accettare altri punti di riferimento;
– accettare di relazionarsi e “mediare” con altri bambini;
– superare le frustrazioni e, in questo modo, imparare ad affrontare meglio la realtà.
- Quali comportamenti il bambino può manifestare in questa fase?
A scuola :
– il bambino piange quando il genitore si allontana dal nido;
– il bambino ricerca un rapporto fisico “privilegiato” con l’educatore;
– il bambino si porta da casa, o porta a scuola, un oggetto che gli dà sicurezza;
– il bambino inizialmente potrebbe non accettare di essere consolato dall’adulto e rifiutare il rapporto con gli altri bambini.
Alcuni di questi comportamenti possono presentarsi successivamente perché i bambini sono presi dalla curiosità e dalla novità e non mostrano immediatamente queste reazioni.
A casa:
– il bambino ricerca con più insistenza uno dei due genitori o tutti e due;
– manifesta eventuali cambiamenti nel momento del pasto o del sonno;
Questi comportamenti o atteggiamenti sono normali e legati al fatto che il bambino deve abituarsi alla nuova esperienza, solitamente si risolvono nel giro di breve tempo.
Il punto di vista del genitore
Molti genitori tendono a sottovalutare le potenzialità e le abilità del bambino dai i tre anni; un ambiente appositamente strutturato e dotato di personale qualificato può offrire un’ampia possibilità di esplorazione rispondendo ai bisogni cognitivi del bambino.
La funzione della scuola dell’infanzia non riguarda solo gli aspetti cognitivi; anche nel campo delle relazioni sociali con gli adulti e con i coetanei può svolgere un ruolo prezioso. La scuola dell’infanzia è la prima opportunità importante anche per i genitori come occasione di confronto, di crescita, per acquisire competenze in rapporto allo sviluppo e ai problemi dell’educazione dei figli.
Solitamente le domande che maggiormente sorgono spontanee ai genitori sono le seguenti:
- In rapporto al bambino
– È giusto allontanarsi dal bambino che piange al nido?
– Si abituerà il bambino ai ritmi del nido?
– Il bambino mangerà, dormirà, etc. senza di me?
– Accetterà le educatrici della sua sezione?
– Si troverà bene in mezzo agli altri bambini?
- In rapporto a se stessi come genitori
– E’ possibile allontanarsi dal bambino senza essere troppo preoccupati?
– Il mio bambino sarà curato adeguatamente?
– Perderò il mio ruolo come figura di riferimento?
- In rapporto all’organizzazione del nido
– Le educatrici sono abbastanza preparate per prendersi cura del mio bambino?
– Come fanno a gestire più bambini insieme, quando io faccio fatica a gestirne uno?
– Il cibo è adeguato?
– Saremo informati dei progressi e delle conquiste dei bambini
Queste e altre domande potrebbero venire in mente, è normale. Soprattutto dal momento che le persone che si prenderanno cura del loro bambino sono per loro estranee, ma l’importante è esternare questi dubbi, chiedere chiarimenti per evitare che tensioni non espresse influiscano negativamente sull’ambientamento del bambino e sulla loro scelta del nido.
Perché un inserimento si consideri buono:
Il bambino deve essere in grado di separarsi dalla propria figura di riferimento affettivo e predisporsi verso nuovi attaccamenti, deve poter condividere col genitore spazi, oggetti, esperienze ludiche per essere in grado di investire l’ambiente-nido della presenza genitoriale e rendere meno frustrante la separazione, deve raggiungere uno stato di benessere con gli adulti ed i bambini attraverso sentimenti di fiducia e attaccamento.
La famiglia deve mettersi in condizione di conoscere la struttura e le routines del della scuola, essere predisposta ad allacciare rapporti di fiducia nei confronti dell’educatore/insegnate, che saprà consigliarlo e sostenerlo nello sviluppo psico-fisico del bambino; elaborare il distacco come affidamento non competitivo; rendersi consapevole di ciò che sta vivendo il bambino nei giorni d’inserimento riconoscendo e restituendo gli stati emotivi al figlio, accettare che nell’inserimento le esigenze e i tempi del bambino vengono al primo posto e per tanto preventivare un periodo d’assenza dal lavoro.
Solitamente le domande, che maggiormente sorgono spontanee ai genitori sono le seguenti:
- In rapporto al bambino
– È giusto allontanarsi dal bambino che piange a scuola?
– Si abituerà il bambino ai ritmi della scuola?
– Il bambino mangerà, dormirà, etc. senza di me?
– Accetterà le educatrici/insegnati della sua sezione?
– Si troverà bene in mezzo agli altri bambini?
- In rapporto a se stessi come genitori
– E’ possibile allontanarsi dal bambino senza essere troppo preoccupati?
– Il mio bambino sarà curato adeguatamente?
– Perderò il mio ruolo come figura di riferimento?
- In rapporto all’organizzazione della scuola
– Le educatrici sono abbastanza preparate per prendersi cura del mio bambino?
– Come fanno a gestire più bambini insieme, quando io faccio fatica a gestirne uno?
– Il cibo è adeguato?
– Saremo informati dei progressi e delle conquiste dei bambini
Riflessioni
I bambini, chi prima chi dopo, si inseriscono tutti salvo casi eccezionali; che sia la sezione primavera, il nido o la scuola dell’infanzia la loro prima esperienza bisogna tener presente però che, a parte la prima settimana di “impatto” al alla scuola, l’ambientamento vero e proprio ha bisogno di più tempo per realizzarsi, affinché il bambino si abitui ai ritmi, ai tempi, alle attività che vengono proposte. Di solito si ritiene che l’ambientamento sia concluso quando il bambino va a scuola con piacere, non piange al momento del saluto e durante la giornata e partecipa con curiosità e interesse alle proposte che gli vengono fatte insieme agli altri bambini. È normale che anche bambini “ben inseriti” possano presentare dei momenti di crisi, ad esempio dopo una assenza lunga per malattia o perché stanno vivendo a casa un momento di particolare tensione.
Sindrome di Asperger : definizione e criteri diagnostici
Solo dopo un anno, da quando Leo Kanner nel lontano 1943 descrisse per primo la sindrome Autistica, Hans Asperger trattò una patologia simile ma non uguale: il Disturbo di Asperger. La descrizione di Asperger si differenziava però da quella di Kanner, in quanto il linguaggio era in ritardo in modo meno frequente, i deficit di tipo motorio erano più comuni, l’inizio della manifestazione del disturbo si presentava più tardi, e tutti i casi iniziali descritti riguardavano solo il sesso maschile. Inoltre, Asperger suggeriva che era possibile osservare alcuni problemi simili anche in altri membri della famiglia, e particolarmente nei padri. Per molti anni, questa sindrome è rimasta fondamentalmente sconosciuta nella letteratura inglese. Uno sguardo retrospettivo e una serie di analisi di casi realizzati da Lorna Wing nel 1981, aumentarono poi l’interesse per questa condizione, determinando un uso sempre maggiore di questo termine nella pratica clinica e un continuo aumento del numero di rapporti di casi e di studi di ricerca. Le caratteristiche cliniche della sindrome descritte abitualmente includono: a) scarsezza di empatia; b) interazione sociale unilaterale, inappropriata e senza malizia, poca abilità di formare delle amicizie e conseguente isolamento sociale; c) linguaggio monotono e pedante; d) scarsa comunicazione non verbale; e) profondo interesse in tematiche circoscritte come il tempo, i fatti di trasmissioni televisive, gli orari ferroviari o le carte geografiche che, memorizzate in modo meccanico, riflettono poca comprensione conferendo inoltre un’impressione di eccentricità; f) movimenti goffi, maldestri e posture bizzarre.
Nonostante Asperger avesse originariamente descritto la presenza di questa condizione unicamente in persone di sesso maschile, attualmente vi sono pure casi di persone di sesso femminile con questa sindrome[i].
Inoltre, da recenti studi, risulta che la maggior parte dei bambini affetti da questa condizione si situano nei normali parametri di intelligenza; pertanto sono state constatate molte similitudini con l’autismo senza ritardo mentale denominato “High Functioning Autism”[ii]. L’apparente inizio della condizione, o perlomeno la presa di coscienza di essa, ha luogo probabilmente un po’ più tardi dell’autismo. È possibile che ciò sia dovuto al fatto che le proprietà di linguaggio e le abilità cognitive sono migliori. La condizione tende ad essere molto stabile nel tempo e le più alte capacità intellettive osservate suggeriscono, a lungo temine, un miglior esito di quanto tipicamente osservato nell’autismo.
Per quanto concerne tale Sindrome , il DSM-IV-TR evidenzia compromissione qualitativa nelle interazioni sociali manifestate da almeno due delle seguenti condizioni:
a) Accentuate difficoltà nell’espressione di diversi comportamenti non verbali, come
guardarsi negli occhi, espressioni facciali, postura, gesticolazione come parte dell’interazione sociale;
b) Difficoltà nello stabilire relazioni paritetiche appropriate allo stadio di sviluppo;
c) Mancanza di una spontanea ricerca di condividere gioie, interessi o conquiste con gli altri (ad esempio difficoltà nel mostrare, portare o indicare oggetti di interesse);
d) Mancanza di reciprocità sociale o emotiva
Modalità di comportamenti, interessi e attività limitati, ripetitivi o stereotipati, manifestati da almeno una delle seguenti condizioni:
a) Fissazione onnicomprensiva per uno o più comportamenti stereotipati e limitati che
risulta abnorme in quanto ad intensità o a livello di attenzione;
b) Adesione apparentemente inflessibile a specifiche routine o rituali senza motivo;
c) Tic o comportamenti motori compulsivi e ripetitivi (ad esempio contorsione o
agitazione delle mani/delle dita oppure movimenti corporei complessi);
d) Fissazione persistente su parti di oggetti
Il disturbo causa difficoltà clinicamente significative a livello sociale, occupazionale o di altre importanti aree funzionali.
Non si nota nessun generale ritardo clinicamente significativo nella sfera del linguaggio (ad
esempio, parole singole usate entro i due anni d’età, espressioni complete usate entro i tre anni d’età).
Non si nota nessun ritardo clinicamente significativo nello sviluppo cognitivo o nello sviluppo di abilità di autosufficienza appropriate all’età, né ve ne sono nei comportamenti adattivi (tranne l’interazione sociale) o per quanto concerne la curiosità verso il mondo esterno durante l’infanzia.
Non si ravvisano gli estremi di altri Disturbi Pervasivi dello Sviluppo né di Schizofrenia.
[i] I maschi hanno comunque molta più probabilità di esserne affetti
[ii] Cfr. Sindrome di Asperger e autismo high-functioning – Diagnosi e interventi (2006) ; (a cura di) Eric Schopler, Gary B. Mesibov e Linda J. Kunce; Erickson- Trento.
Autismo: definizione e criteri diagnostici
“Dinanzi a me un bambino … i suoi occhi non incrociano mai i miei; non risponde alla mia voce, muove continuamente le mani e sul muro di fronte a noi la sua ombra riproduce le ali di una farfalla in volo. Al suono della mia voce incomincia a camminare in punta di piedi, a correre avanti e dietro, a dondolare e a ripetere convulsamente parole senza scopo. Isolato in un crescendo di urla e di pianti si rannicchia in un angolo con l’amore prigioniero dentro…”
Così si presenta l’Autismo “Infantile”, disabilità inserita nelle atipie dello sviluppo.
La sua caratteristica principale è la difficoltà di contatto con la realtà, condizione che comporta un’impossibilità o comunque una grande difficoltà a comunicare con gli altri e a mantenere un contatto funzionale con l’ambiente.
La parola Autismo deriva dal greco “autos = se stesso” identificando la disabilità con una tendenza all’isolamento. L’Autismo si manifesta entro i primi 36 mesi di vita e perdura per tutta la vita. Colpisce 1 persona su 1000, mentre 2 su 1000 ne presentano alcuni sintomi potendo anch’esse essere incluse nella definizione di soggetti con “spettro autistico”. La percentuale di incidenza è a favore del sesso maschile con rapporto di 4:1 rispetto alle femmine.
Secondo l’ICD-10 (International Classification of Disease) e il DSM-IV (Diagnostic and Statistic Manual of Mental Disorders), l’Autismo o più precisamente di Disturbo dello spettro dell’autismo (DSA o ASDs, Autistic Spectrum Disorders) e la sindrome di Asperger sono Disturbi Pervasivi dello Sviluppo, dove rientrano, fra le varie forme, anche la sindrome di Rett e il Disturbo disintegrativo dell’infanzia e il Disturbo Disintegrativo non specificato.
I Disturbi Pervasivi dello Sviluppo sono caratterizzati da compromissione grave e generalizzata in diverse aree dello sviluppo: capacità di interazione sociale reciproca, capacità di comunicazione, o presenza di comportamenti, interessi, e attività stereotipate. Le compromissioni qualitative che definiscono queste condizioni sono nettamente anomale rispetto al livello di sviluppo o all’età mentale del soggetto.
Va specificato, inoltre, che quasi tutti Disturbi Pervasivi dello Sviluppo sono generalmente evidenti nei primi anni di vita e talvolta (ma non sempre come nel caso della Sindrome di Asperger), è associato un certo grado di Ritardo Mentale.
In passato tali Disturbi Pervasivi dello Sviluppo, vennero indicati come “psicosi” o “schizofrenia infantile”, ad oggi vi sono considerevoli prove che la “schizofrenia infantile” o la “psicosi” siano diverse dai DPS.
Più nello specifico, le caratteristiche diagnostiche del Disturbo Autistico così come riportate dal DSM-IV-TR (Diagnostic and Statistic Manual of Mental Disorders), riguardano la presenza di uno sviluppo notevolmente anomalo o deficitario dell’interazione sociale e della comunicazione, e una notevole insufficienza nel repertorio di attività o di interessi. Le manifestazioni del disturbo variano ampiamente a seconda del livello di sviluppo e dell’età cronologica del soggetto.
Il Disturbo Autistico viene talvolta riportato come autismo infantile precoce, autismo infantile o autismo di Kanner. La compromissione dell’interazione sociale è il primo punto sul quale bisogna soffermarsi affinché si possa fare una diagnosi accurata del disturbo Autistico. Questo primo punto, indicato, anche come alterazioni qualitative dell’interazione sociale, è distinto in quattro elementi ulteriori:
a) una grave alterazione nell’uso di comportamenti non verbali come lo sguardo reciproco, le espressioni facciali, le posture corporee e i gesti che regolano l’interazione sociale;
b) l’incapacità a formare relazioni con i coetanei in maniera adeguata al livello mentale;
c) un’incapacità a condividere interessi e momenti gioiosi con gli altri;
d) una mancanza di reciprocità sociale o emozionale.
Il secondo riguarda alterazioni qualitative nella comunicazione ed è suddiviso in:
a) ritardo o assenza del linguaggio verbale (non compensato da gesti o espressioni mimiche);
b) grave alterazione nella capacità di iniziare o sostenere una conversazione (nei soggetti con linguaggio adeguato);
c) uso ripetitivo o stereotipato della conversazione;
d) mancanza di giochi spontanei di finzione e di iniziative sociali di gioco adeguate all’età mentale.
Il terzo si riferisce a comportamenti, interessi, attività ripetitive, ristrette e stereotipie come:
a) un’intensità o una focalizzazione esagerata su uno o più schemi di interessi ristretti;
b) un insistere su rituali o routines non funzionali;
c) manierismi motori ripetitivi;
d) preoccupazione persistente con parti di oggetti.
Per la diagnosi di autismo si richiedono minimo due elementi della prima categoria, uno della seconda e uno della terza: almeno sei in tutto. A questo si aggiungono ritardi o disfunzioni[i], prima dei tre anni, in almeno una delle seguenti aree: interazione sociale, linguaggio a livello di comunicazioni interpersonali, giochi simbolici o immaginativi[ii].
Diverse sono, inoltre, le possibilità evolutive : da un quadro di lieve deficit cognitivo con raggiungimento di discrete capacità di interazione sociale e delle principali autonomie personali, a gravi caratteropatie, associate ad organizzazioni di quadro ossessivo – fobici. E’ abbastanza complesso e significativo distinguere quanta parte di questi estremi possibili dipenda dal naturale sviluppo della condizione patologica stessa o piuttosto della cattiva gestione abilitativa sino ad oggi praticata.
La diagnosi individua e avvia la somministrazione di una specifica “cura” e la prognosi è quod vitam. Per le persone con Autismo non si può, pertanto parlare di guarigione, mentre è invece possibile un significativo miglioramento della qualità di vita mediante il raggiungimento di autonomie, l’acquisizione di competenze e di un livello cognitivo e relazionale accettabile. Questo è possibile se ad una diagnosi precoce, coordina un programma riabilitativo per il bambino e uno psicoterapeutico per tutta la famiglia.
[i] Talvolta la sindrome Autistica comporta eccellenti capacità settorializzate per specifiche funzioni. Ad EX. In aree specifiche come la matematica, la musica, il disegno. Si tratta di abilità straordinarie , molto al di là delle proprie capacità generali.
[ii] American Psychiatric Association, 1994, Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, 4th Edition (DSM IV), American Psychiatric Press, Washington D.C.; Tr. It., DSM IV-TR, Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, Text Revition, 2004, Masson;
Riflessioni sull’approccio terapeutico nella psicoterapia familiare
Due righe per restituire una visione personale sull’approccio della terapia familiare. Con l’intento di non essere ripetitiva, cercherò di offrire una prospettiva globale.
E’ evidente, alla luce di quanto detto, che la famiglia è un sistema, ossia un’entità che possiede caratteristiche, regole e norme proprie. L’identità dell’individuo e i vissuti personali dello stesso, sono la somma della trama relazionale in cui è immerso. Sistema famiglia e individuo sono due facce necessariamente complementari di una medesima realtà, tali che e l’una rinvia all’altra e non può essere pienamente compresa l’una senza, necessariamente, affrontare l’altra.
L’individuo con la soggettività delle sue reazioni psicoemozionali, la famiglia con le sue dinamiche interattive e l’ambiente sociale con le influenze culturali che ne derivano, sono in stretta correlazione tra loro e, pur rimanendo livelli assolutamente distinti, rivelano una imprescindibile complementarietà. Al punto, che ogni membro del sistema esercita una serie di effetti, di influenze, sugli altri membri e se si manifesta un sintomo in uno dei membri, quel sintomo è parte del sistema, in quanto disfunzionalità di quella famiglia. La terapia familiare si può, metaforicamente, considerare come un viaggio con la famiglia, dove lo Psicoterapeuta viene scelto come accompagnatore. Nella sua valigia autorevolezza, capacità di ascolto, competenza, empatia, disponibilità, direttività e chiarezza sono funzionali al percorso che compirà con la famiglia. I vissuti interni dei membri, le emozioni, le relazioni e le problematiche sono le mete che dovranno esplorare e conoscere. Lo scopo finale di questo viaggio è quella di attivare un cambiamento funzionale alla crescita della famiglia.
La Famiglia Anoressica
L’ identità proviene dalla nostra famiglia. Ed è in questo nucleo di base che il bambino inizia ad esperire le prime realtà. La bambina anoressica cresce in una famiglia che agisce su modelli altamente invischiati e una bambina che cresce in tale sistema familiare impara a subordinare il proprio sé agli altri, dove l’approvazione si sostituisce alla ricompensa.
Secondo gli studi fatti da Minuchin e coll., una bambina che si è relazionata con modelli invischiati può diventare anoressica, specie se nella famiglia sono presenti anche altri processi.
La protettività è una delle caratteristiche tipiche delle famiglia anoressica. Non a caso la bambina anoressica cresce protetta dai genitori, che si focalizzano solo sul suo benessere. I genitori ipervigilanti e attenti ai bisogni psicofisiologici della bambina, mostrano così tutte le loro preoccupazioni che investono la piccola.
Nel momento che la bambina sperimenta, che quello che fa è dominio di chi le sta attorno, sviluppa un perfezionismo ossessivo e un’attenzione particolare su sé e sui segnali delle altre persone. Così la sua preoccupazione diventa l’approvazione dei genitori.
La bambina è socializzata ad agire come si aspetta la famiglia ed è particolarmente attenta a non mettere in imbarazzo i genitori. L’autonomia è limitata all’intrusività e all’iperprotettività della famiglia, in quanto ampie aree del funzionamento corporeo restano sotto controllo altrui. E la bambina non riesce a sviluppare le abilità necessarie per potersi relazionare con persone della sua stessa età, di conseguenza diviene abile nelle relazioni con gli adulti. Il suo coinvolgimento nella famiglia non le permette di aprirsi all’ambito extrafamiliare.
Inoltre, la bambina anoressica che si affaccia all’adolescenza entra in conflitto e il suo desiderio di entrare in contatto con il gruppo dei pari è ostacolato dall’orientamento verso la famiglia.
Così, invece di riuscire a svincolarsi dalla sua famiglia, come fanno i coetanei, gli rivolge maggiore attenzione pensando di poterli aiutare a cambiare. I genitori, a loro volta, rafforzano i confini e fanno in modo che la bambina sia ipercoinvolta nella famiglia.
Nelle famiglie anoressiche i confini sono forti e ben definiti, questo permette ai membri di rafforzare il loro legame e invischiarsi sempre più.
Un’altra caratteristica delle famiglie anoressiche è la focalizzazione sulle funzioni corporee. Vari membri della famiglia lamentano disturbi fisici e queste lamentele possono riferirsi a malattie reali o semplicemente rappresentare una sensibilità generale ai normali processi fisiologici. Spesso, in queste famiglie emergono preoccupazioni particolari su questioni come il mangiare.
Nel caso in cui queste famiglie subiscono uno squilibrio, tutti membri si compattano per proteggere il sistema, è fanno ciò per reprimere quei membri il cui bisogno cambiamento minaccia lo status quo.
Sfidare al cambiamento Quando una famiglia anoressica entra in terapia, i famigliari della paziente si presentano come accompagnatori. Secondo loro c’è qualcosa che non va nel “paziente designato”, qualcosa che sfugge al loro controllo e che mette in crisi l’intera famiglia. Il terapeuta familiare sa che quell’individuo sintomatico è parte si un sistema psicosomatico. Infatti, lo stesso sistema inserisce il sintomo nella sua rete comunicazionale utilizzandolo per il proprio funzionamento e per la propria comunicazione.
Il sintomo può essere insorto in un individuo sia a causa delle sue particolari condizioni di vita sia come tentativo di risolvere la disfunzione esistente nella famiglia, e la malattia può sparire solo a prezzo di un cambiamento intervenuto nel “gioco familiare” che possa portare la famiglia stessa a funzionare indipendentemente dal disturbo.
Le fasi iniziali di una terapia con una anoressica devono focalizzarsi sulla sindrome che presenta una minaccia di morte[i] e muoversi verso lo scopo primario che è quello di abbandonare il sintomo. Successivamente il terapeuta deve andare otre il sintomo, decentrando l’attenzione dal paziente designato alla famiglia. In questo modo la paziente anoressica è libera di sperimentarsi solo come parte di un sistema disfunzionale. Ogni terapeuta, cerca poi di sfidare le cinque modalità transazionali che sono direttamente collegate alla comparsa ed al mantenimento di un quadro sintomatico: invischiamento, iperprotettività, rigidità, evitamento del conflitto e deviazione del conflitto. Nessuna di queste caratteristiche sembra sufficiente a sostenere i sintomi psicosomatici da sola, ma l’insieme di esse è ritenuto tipico di un assetto familiare che incoraggia la somatizzazione. Le strategie terapeutiche saranno quindi indirizzate contro queste modalità di transazione. Il terapeuta ha il compito di riformulare il sistema familiare, ed è attivamente coinvolto come agente del rinnovamento mediante l’uso di tecniche atte a provocare crisi e tali da scuotere il sistema e costringerlo a cercare un nuovo equilibrio strutturale, più salutare.
La sfida all’invischiamento consiste nel sostenere lo spazio vitale individuale, sostenere la definizione del sottosistema,, e sostenere l’organizzazione gerarchica familiare. In genere l’invischiamento viene proclamata come orgoglio delle famiglie anoressiche, in quanto esse si vedono leali, protettive, sensibili e responsabili, cosa che in effetti non sono. Tutte le operazioni che costituiscono una sfida all’invischiamento cercano di aumentare l’autonomia. Il terapeuta sottolinea la necessità di ciascun membro della famiglia di avere uno spazio psicologico. Spesso il terapeuta incoraggia ciascun membro di parlare e ad esprimere un sua idea, rafforzando così la differenzazione. Blocca poi chi decide di parlare come portavoce della famiglia o chi decide di sostenere uno dei membri della famiglia che esprime un’emozione. Offre, comunque la possibilità di poter manifestare il suo stato d’animo e indaga sulle ragioni del pianto.
Inoltre, è importante che il terapeuta differenzi il sottosistemi fratelli ed eviti che altri membri della famiglia si intromettino nel sottosistema dei fratelli. Ma non solo, il compito del terapeuta con queste famiglie è anche di chiarire l’organizzazione gerarchica, definendole aree di responsabilità dei genitori e quelle di ove genitori e figli possono confrontarsi.
Comunque, si può dire che generalmente tutte le operazioni terapeutiche che sfidano l’invischiamento sono operazioni che sostengono l’individuazione.
Gran parte delle operazioni utili per sfidare l’invischiamento sono valide anche sfidare nelle l’iperprotettività. Le famiglie iperprotettive si distinguono per l’intrusività dei membri. Come per l’invischiamento ci sono operazioni che vanno ripetute per rendere cosciente la famiglia. E’ importante, quindi che il terapeuta dia autonomia e autoconsapevolezza a ciascun membro della famiglia, favorendo l’individualità di ciascuno. Talvolta, il terapeuta può notare che la ragazza anoressica fa le veci della madre, ad esempio occupandosi della casa o della preparazione del pranzo, in questo caso la famiglia può essere sfidata ridefinendo i ruoli e i confini di questa famiglia. Anche in questo caso è molto importante decentrare l’attenzione dalla ragazza anoressica ai genitori, in questo modo si evita che la ragazza si consideri la parte “malata”dalla famiglia e si esperisca in modo autonomo.
Spesso le famiglie anoressiche tendono ad evitare il conflitto e apparentemente questo viene confuso con l’armonia della famiglia. In realtà il fatto che a famiglia non appaia in conflitto, agli occhi del terapeuta, è fuorviante per il terapeuta stesso, che può essere tratto in inganno.
In genere, il terapeuta si oppone all’evitamento del conflitto creando dei confini,anche attraverso la manipolazione dello spazio, che aiutino i membri a discutere e a risolversi sul tema di scontro. Ad esempio, se due membri mostrano un’opinione diversa, gli si chiede di sedersi vicino e di discutere sulla diversa opinione. Il terapeuta in questi casi può essere facilmente triangolato, specie se uno dei membri vuole evitare il conflitto e cercare un’alleanza con il terapeuta stesso. Nel caso in cui qualche altro componente della famiglia entra nella discussione viene immediatamente bloccato.
Oltre a sostenere il conflitto fra sottosistemi, il terapeuta facilita lo sviluppo della risoluzione del conflitto fra genitori e paziente anoressica. E lo fa ancora una volta definendo i ruoli in famiglia nel rispetto dell’autonomia e dell’età dei membri e della ragazza anoressica.
Sfidare la rigidità della famiglia anoressica non è cosa facile per il terapeuta, che si trova di fronte una “rigidità” “flessibile”. Seppure i due termini sembrano non poter coesistere nello stesso contesto è l’unico modo per poter spiegare la rigidità di una famiglia, che sembra prendere forma secondo l’impostazione del terapeuta ma, che dopo poco si ricostruisce nello stesso identico modo di prima. Pertanto il terapeuta deve rendersi conto, che con queste famiglie i messaggi vengono ben attutiti e diviene molto efficace la messa in atto dei problemi e la creazione delle prescrizioni concrete, chiaramente differenziate.
La sfida alla deviazione del conflitto è la strategia terapeutica più difficile da discutere, poiché richiede specifiche capacità del terapeuta. Nel proteggere il membro triangolato della famiglia, il terapeuta rischia di associarsi ad esso troppo strettamente. Ai triangolatori ci si può opporre, ma devono essere anche sostenuti. Allora, il terapeuta deve saper lavorare su entrambi le parti associarsi simultaneamente con i membri della famiglia in modo tale che si sentino rispettati.
In questi casi è importante che il terapeuta si presenta con autorevolezza e competenza, capacità di ascolto, empatia e direttività.
Bibliografia CANESTRERI R., GODINO A., “Trattato di psicologia”, CLUEB, Bologna, 2002. DSM-IV, “Manuale Diagnostico e statistico dei disturbi mentali”, Masson,2004.
ERCOLANI M., “Malati di Dolore”, Zanichelli, Bologna, 2001.
GLEN O. GABBARD, “Psichiatria e psicodinamica”,Raffaello Cortina Editore, Milano, 2002.
KÜBLER-ROSS E.; “La morte e il morire”, Cittadella Editrice, Assisi,2005
LERMA M., Articolo CONVEGNO INTERNAZIONALE “I Pionieri della Terapia familiare” Roma 8/10 dicembre 2000 organizzato da Accademia di psicoterapia della famiglia di Roma, Istituto di terapia familiare di Firenze, Scuola romana di psicoterapia familiare di Roma, www.formazione.eu.com, 2007.
MAROCCI G., “Abitare l’organizzazione”, Edizioni Psicologia, Roma, 1996.
MINUCHIN S.; ROSMAN B. L.; BAKER L.; “Famiglie Psicosomatiche”, Astrolabio, Roma, 1980.
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NOLE’ A., DILORENZO M. , “L’Approccio Sistemico”, Dispensa del Corso di Specializzazione in Psicoterapia Relazionale, Potenza, 2007.
PELLEGRINO F.; “Psicosomatica”, Il Saggiatore, Milano, 1998.
TRENTIN R.; “Gli atteggiamenti sociali”, Bollati Boringhieri, Torino, 2002.
TROMBINI G.; BALDONI F., “Disturbi psicosomatici”, Il Mulino, Bologna, 2001.
[i] Il termine morte viene usato per indicare un processo, una modalità del divenire, un modo di trasformarsi continuo dell’essere, che chiamiamo più propriamente il “morire”. La continua trasformazione dell’essere è costituita da diversi passaggi da uno stato ad un altro che sono segnati da cambiamenti. Ogni cambiamento implica la privazione o la perdita di uno stato precedente e costituisce la prima esperienza, il primo approccio con la morte. Infatti nello scorrere del tempo nessuno e nessuna cosa rimane simile a se stessa. La morte non esiste come entità, ma solo come concetto: è in verità un’astrazione. L’idea di non essere più quello di prima vuol dire aver fatto morire qualcosa di noi, di brutto o di bello che sia. Questa riflessione e le precedenti considerazioni, che rispecchiano la realtà della nostra condizione umana, possono portare ad almeno due tipi di atteggiamenti o attitudini, in Occidente, nei confronti della morte e del morire: una partecipazione attenta alla vita, ma minata dalla probabilità sempre attuale dell’interruzione della nostra esistenza come progetto, oppure un atteggiamento cinico e distaccato che – come nella classica visione filosofica dello scetticismo – rifiuta obbiettivi giocati su una prospettiva che vede al suo interno un fine non esattamente prevedibile. Ambedue le posizioni riflettono un sentimento di smarrimento, di incapacità e d’impossibilità, a volte, ad affrontare il pensiero della morte. Da quando gli uomini hanno avvertito paura ed angoscia per l’imprevedibilità e la necessità della morte, hanno cercato soluzioni mitiche al senso di sofferenza e consolazione all’inevitabilità della propria fine. L’elaborazione dell’idea di morte e del morire in Occidente è stata influenzata dalla difficoltà di affrontare i sentimenti cupi che essa genera; paura ed imprevedibilità della morte generano negli individui e negli aggregati sociali atteggiamenti atti ad escogitare sistemi per sfuggire alla minaccia della propria fine o alla disgregazione del gruppo di appartenenza. Questi sistemi – il lutto e le dinamiche del cordoglio – hanno conosciuto nel corso della storia (soprattutto nel periodo che segna la transizione tra la società feudale-contadina e l’affermazione dell’individualismo della società urbano-industriale) trasformazioni determinanti per lo sviluppo del concetto di morte. Oltre alla paura ed al senso d’angoscia, hanno influito in modo importante sull’idea di morte in Occidente l’evoluzione dei sistemi di apprendimento e lo sviluppo del pensiero scientifico. Dopo un lungo periodo durante il quale ha prevalso una visione “naturale” della morte (o della morte naturale), l’idea della morte ha dovuto confrontarsi con il pensiero illuminista e la filosofia positivista che chiedevano argomenti più razionali a fronte dei cambiamenti che accompagnano l’invecchiamento, la malattia e le alterazioni irreversibili della materia vivente. Alla trasformazione del concetto di morte ha contribuito un graduale processo di dissacrazione, che da un lato, nel favorire l’affermazione degli aspetti biologici della vita e della sua fine -per esempio rilevando le cause di morte sul cadavere -è stato motivo di rassicurazione, ma che ha riproposto antiche e irrisolte questioni, sollevando nuovi interrogativi sul significato dell’esistenza e dell’aldilà e provocando un inquietante vuoto di riferimenti. Di fronte all’affermarsi di immagini più razionali e di aspetti più concreti della morte, così come di fronte al contemporaneo svanire di miti e riti, all’assenza di codici e tradizioni, l’Occidente si è trovato privo dei riferimenti culturali che servivano se non a spiegare, almeno ad esorcizzare ed accettare la morte e ha trovato rifugio in meccanismi di negazione, spostamento e rimozione, considerati tra le cause più frequenti di manifestazioni nevrotiche e di personalità conflittuali. Così accanto alla ricerca inquieta di risposte rassicuranti sulla possibilità di spostare i confini tra vita e morte, riposa ancora la grande incertezza sulla definizione di morte e, come tentativo di allontanare la minaccia rappresentata dalla certezza del limite, si assiste all’imporsi di filosofie “metropolitane”, nella quale gli elementi di riflessione non sono più la paura della morte, intesa come “la fine”, e del morire, visto come condizione di angoscia esistenziale, ma il timore di non esserci più alle cose del mondo: la paura di “non vivere”, come ansia della perdita di oggetti di culto e di status. Il progetto di sopravvivenza si inscrive oggi in una dimensione prevalentemente orizzontale. In questo scenario ha acquistato rilevanza una nuova immagine della morte, caratterizzata dall’iperrealismo delle rappresentazioni prodotte dall’iconografia e dalla medialità contemporanea. Per ulteriori informazioni C.f.r. Kübler-Ross E.;“La morte e il morire”, Cittadella Editrice, Assisi,2005
Disturbi dell’alimentazione
Il tema sui disturbi del comportamento alimentare è assai vasto e articolato, pertanto in questa circostanza percorreremo una panoramica generale sui comportamenti alimentari e i criteri diagnostici, per approfondire, in modo più accurato, le relazioni familiari.
L’Anoressia Nervosa e la Bulimia Nervosa sono disturbi della nostra epoca, caratterizzati dalla presenza di grossolane alterazioni del comportamento alimentare. Distintivo dell’Anoressia Nervosa è il rifiuto di mantenere il peso corporeo al di sopra del peso minimo normale. Mentre, la Bulimia Nervosa è caratterizzata da frequenti episodi di “abbuffate” seguiti dall’attuazione di mezzi inadatti per controllare il peso, come il vomito autoindotto, l’uso di diuretici e lassativi; il digiuno o l’attività fisica praticata in maniera eccessiva.
Una caratteristica comune ad entrambi i disturbi del comportamento alimentare è la presenza di una alterata percezione del peso e della propria immagine corporea[i].
Dati statistici dimostrano, che dagli anni ’60 a oggi l’incidenza dell’anoressia nervosa è raddoppiata, mentre la prevalenza della bulimia nervosa, riscontrate tra ragazze adolescenti e giovani adulte si aggira attorno all’un per cento. Questi dati, avvalorano la tesi che i disturbi dell’alimentazione possono essere una soluzione, sempre più comune, per una varietà di fattori stressanti intrapsichici, familiari e ambientali[ii]. Minuchin e collaboratori hanno descritto uno schema di invischiamento nelle famiglie dei pazienti anoressici, caratterizzato da una generale assenza di confini generazionali e personali. Ciascun membro della famiglia è ipercoinvolto nella vita di tutti gli altri, al punto che nessuno esperisce un senso di identità separata al di là della matrice familiare. Anche la Selvini Palazzoli ha evidenziato che le pazienti con anoressia nervosa non erano in grado di separarsi psicologicamente dalla madre, con il risultato di non aver mai acquisito uno stabile senso del proprio corpo. Inoltre, si è notato che i genitori di una paziente anoressica tendono a proiettare la loro ansia nella figlia invece di contenerla[iii].
Anoressia
Secondo il DSM IV, il manuale Diagnostico e Statistico per i disturbi mentali[iv], riconosciuto a livello internazionale per la classificazione delle malattie mentali, si possono individuare dei criteri comuni essenziali per poter asserire che si tratta di Anoressia Nervosa, fermo restando che si può dire che esistono tante forme di anoressia quante sono le pazienti.
Ciò che sul piano diagnostico caratterizza l’Anoressia Nervosa è una ricerca fanatica della magrezza correlata alla paura di ingrassare. Spesso chi soffre di Anoressia Nervosa vive il proprio peso in modo alterato e così anche la forma del proprio corpo, per cui l’umore e l’autostima dipendono direttamente dal peso corporeo.
Come si può comprendere, ogni azione, ogni pensiero di una ragazza che soffre di questo disturbo, sono dovuti al contrasto tra impulso fisiologico di aumentare il peso e il desiderio di esser magre o, per meglio dire, sottopeso. Lo scontro tra un’esigenza naturale e il desiderio di controllarla non è semplice, e lo sforzo necessario per vincere questa battaglia quotidiana è così imponente che non lascia assolutamente tempo per dedicarsi ad altre cose. Tutto quello che circonda la ragazza in questi momenti appare passato in secondo piano, come se assumesse un valore secondario e irrilevante. Non è facile entrare in questo mondo, non soffermarsi all’apparenza, riuscire ad osservarle da dentro. Infatti, un esame superficiale può indurre gravi errori di interpretazione, inducendo a banalizzare il problema e a iniziare con le ragazze una sterile guerra sul peso, sul corpo, sul cibo, che può provocare solo disperazione e senso di impotenza. Così se vogliamo comprendere l’anoressia dobbiamo intendere la sua manifestazione esteriore come una risposta ad un profondo disagio interno.
Bulimia
La Bulimia Nervosa è un disturbo alimentare caratterizzato da episodi di “abbuffate” seguiti generalmente da comportamenti compensatori. Le abbuffate consistono tipicamente nel mangiare grandi quantità di cibo. Il comportamento compensatorio utilizzato più frequentemente è il vomito autoindotto, ma possono esservi abusati anche lassativi e diuretici, talvolta associando a tutto ciò una eccessiva attività fisica con lo scopo di “neutralizzare” l’abbuffata precedentemente fatta. In questo comportamento è insito un tentativo di alleviare il senso di colpa.
Il comportamento compensatorio è più distruttivo dell’ abbuffata in sé, per due ragioni: in primo luogo espongono il soggetto a un maggior numero di pericoli fisici e medici; in secondo luogo, tale comportamento aiuta a legittimare l’abbuffata; cioè tende a vanificare l’abbuffata e aumenta la probabilità che questa in futuro venga ripetuta e acquisita come parte della propria condotta alimentare. La gamma dei comportamenti può variare di molto da persona a persona. Mentre alcune delle pazienti si abbuffano e ricorrono a questi comportamenti di compenso parecchie volte, altre lo fanno solo saltuariamente. Varia anche ciò che si intende per abbuffata. Per una persona l’abbuffata potrebbe equivalere a cinquemila calorie di cibi dolci, mentre per un’altra potrebbe voler dire mangiare qualsiasi cibo che non sia ad alto contenuto calorico (ad esempio solo frutta). Allo stesso modo anche il comportamento compensatorio può presentarsi sotto parecchie forme, sebbene la maggior parte delle persone bulimiche si auto induca il vomito.
Le somiglianze tra la bulimia e l’anoressia comprendono la preoccupazione per la dieta, il cibo, il peso e la taglia; il disagio quando si è a tavola con gli altri e la ricerca dell’approvazione. Inoltre, è possibile che molte bulimiche in precedenza erano state anoressiche, e molte di quelle che non lo sono state desiderano poterlo essere, cioè riuscire a non mangiare.
Anche con le ragazze che soffrono di bulimia non è facile entrare nel loro mondo, non soffermarsi all’apparenza e riuscire ad osservarle da dentro. Così, ancora una volta, se vogliamo comprendere il loro disagio dobbiamo intendere la manifestazione esteriore come una risposta ad un profondo malessere interno.
Bibliografia CANESTRERI R., GODINO A., “Trattato di psicologia”, CLUEB, Bologna, 2002. DSM-IV, “Manuale Diagnostico e statistico dei disturbi mentali”, Masson,2004.
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LERMA M., Articolo CONVEGNO INTERNAZIONALE “I Pionieri della Terapia familiare” Roma 8/10 dicembre 2000 organizzato da Accademia di psicoterapia della famiglia di Roma, Istituto di terapia familiare di Firenze, Scuola romana di psicoterapia familiare di Roma, www.formazione.eu.com, 2007.
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TROMBINI G.; BALDONI F., “Disturbi psicosomatici”, Il Mulino, Bologna, 2001.
[i] Cfr. DSM-IV, “Manuale Diagnostico e statistico dei disturbi mentali”, Masson,2004.
[ii] Cfr. Glen O. Gabbard, “Psichiatria e psicodinamica”,Raffaello Cortina Editore, Milano, 2002
[iii] Cfr. Glen O. Gabbard, “Psichiatria e psicodinamica”,Raffaello Cortina Editore, Milano, 2002
[iv] Per conoscere meglio i criteri diagnostici sui disturbi del comportamento alimentari Cfr. DSM-IV, “Manuale Diagnostico e statistico dei disturbi mentali”, Masson,2004.
Il Modello Psicosomatico
Prima di entrare in merito del modello psicosomatico è di fondamentale importanza recuperare e approfondire dei concetti che ci guideranno lungo questo percorso di analisi.
La famiglia è uno dei più importanti gruppi di riferimento, che assicura la formazione dell’identità umana per tutti i membri, ma soprattutto per i figli. All’interno della famiglia i bambini sviluppano autonomia e appartenenza. Dunque, il modo in cui funziona una famiglia ha implicazioni importantissime per lo sviluppo psicologico del bambino.
Perché una famiglia possa funzionare bene devono essere stabiliti, all’interno del nucleo stesso, i confini ossia delle regole che definiscono chi partecipa e come al sottosistema. La funzione dei confini, e quindi delle regole, è quella di proteggere la differenzazione del sistema. Affinché una famiglia proceda lungo un iter progressivo in modo sistematico i confini devono essere chiari, in quanto i membri del sottosistema devono poter svolgere i loro compiti. La chiarezza dei confini è un parametro utile per la valutazione del funzionamento familiare.
Le famiglie con confini diffusi sono famiglie invischiate, spesso concentrate su se stesse con conseguente coinvolgimento tra i componenti e minore distanza. In situazioni di tensione questo sistema diventa sovraccarico e privo di risorse necessarie per adattarsi a cambiare. Dinanzi ad una famiglia invischiata è facile osservare come i membri abbiano sviluppato maggiore senso di appartenenza e minore senso di individualità/autonomia. Infatti, il comportamento di un membro influenza direttamente gli altri, oltrepassando prontamente i confini e riflettendosi sugli altri.
Con confini eccessivamente rigidi si delineano le famiglie disimpegnate, in cui la comunicazione tra sottosistemi diventa difficile e in cui esistono funzioni di difesa. In questo genere di famiglia i membri del sistema hanno sviluppato minore senso di appartenenza e maggiore individualità e autonomia. In genere si stratta di un sistema dove manca la capacità di chiedere aiuto e sostegno e dove è assente il senso di lealtà nei confronti della famiglia. Le tensioni che opprimono un membro non riescono a valicare i confini eccessivamente rigidi, solo un livello di tensione individuale molto elevato può far attivare sistemi di sostegno della famiglia.
Sull’analisi delle strutture familiari, Minuchin ha sviluppato la teoria sull’origine del disturbo psicosomatico. I concetti che fanno capo a questo modello sono i seguenti: – il «paziente designato[i]» è legato agli altri da un rapporto di circolarità, i suoi sintomi influenzano il malfunzionamento della struttura familiare e viceversa; – fattori stressanti esterni possono favorire l’insorgenza del disturbo, ma una volta che è comparso, esso viene mantenuto «omeostaticamente» dalla disfunzione familiare; – può essere presente una predisposizione o un’alterazione organica che spieghi il tipo di sintomo, ma, poiché il paziente reagisce in modo circolare con la famiglia, il disturbo tende a protrarsi anche dopo una terapia medica adeguata.
Secondo questo modello, Minuchin ha ipotizzato quattro modalità collegate alla comparsa e al mantenimento del sintomo psicosomatico. Primo fra tutti è l’invischiamento, che come abbiamo già accennato, è la tendenza dei componenti ad occuparsi eccessivamente degli altri. In queste famiglie “le porte sono sempre aperte”, anche gli spazi fisici non sono definiti; i membri sono intrusivi, e invadenti. Spesso parlano al posto dell’altro; i ruoli sono confusi e i confini poco distinti. Pertanto, è possibile che in tali famigli i figli hanno un ruolo genitoriale con i fratelli minori e i genitori si comportano come fossero figli.
Un’altra caratteristica fondamentale delle famiglie psicosomatiche è l’iperprotettività. Si tratta di famiglie con importanti livelli di coinvolgimento emozionale, dove ogni segnale di malessere, di uno o più membri, muove tutto il nucleo ad assumere atteggiamenti eccessivamente protettivi, che limitano l’autonomia e lo sviluppo degli interessi esterni al gruppo.
Terzo elemento distintivo delle famiglie psicosomatiche è la rigidità. In questo caso, il nucleo familiare pone resistenza a ogni forma di cambiamento. Quando un membro cerca di cambiare la propria posizione rispetto al gruppo gli altri agiscono rendendo inutile le forze. Un esempio tipico è il caso dell’adolescente, che pur cercano maggiore autonomia, viene stremato dal gruppo che si compatta e non gli permette di apportare alcuna modifica al loro sistema familiare.
Nei momenti più critici del ciclo vitale[ii]la famiglia cerca di mantenere lo stesso funzionamento divenendo molto vulnerabile. In fasi come questa, è frequente che uno dei componenti si ammali, spostando su di se ogni preoccupazione.
Ultimo requisito della famiglia psicosomatica, per questo non meno importante, è l’evitamento dei conflitti. Si tratta di famiglie con una tolleranza alle frustrazioni molto bassa e che, non sopportando il disaccordo, soffocano i problemi al loro nascere o li negano. Queste sono famiglie che imparano a convivere con grandi conflitti irrisolti e che trovano modalità comportamentali funzionali alla loro disfunzione.
Per modificare le caratteristiche disfunzionali delle famiglie psicosomatiche Minuchin tre finalità terapeutiche: lo sviluppo dell’autonomia individuale; il riconoscimento e l’espressione di conflitti; la valorizzazione del cambiamento.
Ad oggi, la maggior parte dei terapeuti ad orientamento familiare e sistemico considerano pregevoli gli studi fatti da Minuchin e valutano importanti le sue teorizzazioni. Anche i clinici di formazione psicoanalitica e cognitivista, hanno rivolto la loro attenzione allo studio delle relazioni, approfondendo in particolar modo la relazione madre-bambino. Dunque, si può affermare che Minuchin ha contribuito notevolmente a ad allargare i confini della psicosomatica, fornendo contestualizzazioni nuove e ricche di soluzioni ad antichi problemi. Senza mai dimenticare, la complessità dell’esperienza umana, le differenze, le contraddizioni e la ricchezza di pensiero che appartengono all’individuo nel suo essere unico e inimitabile.
Bibliografia CANESTRERI R., GODINO A., “Trattato di psicologia”, CLUEB, Bologna, 2002. DSM-IV, “Manuale Diagnostico e statistico dei disturbi mentali”, Masson,2004.
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TRENTIN R.; “Gli atteggiamenti sociali”, Bollati Boringhieri, Torino, 2002.
TROMBINI G.; BALDONI F., “Disturbi psicosomatici”, Il Mulino, Bologna, 2001.
[i] Il paziente designato è colui che viene presentato dalla famiglia come problematico. Cfr. Trombini G.; Baldoni F., “Disturbi psicosomatici”, Il Mulino, Bologna, 2001.
[ii] Ogni organismo vivente, è in continua evoluzione. Non c’è staticità, ma movimento a caratterizzarne l’esistenza.
Se ci avviciniamo alla famiglia con l’occhio allenato a coglierne questa peculiarità di “insieme”, possiamo osservare come essa si muove lungo un processo evolutivo, che gli psicologi chiamano “ciclo vitale”, di cui si possono anche individuare dei punti nodali, o fasi, o tappe evolutive.
Il corteggiamento, il matrimonio, la nascita dei figli, il periodo centrale del matrimonio e l’adolescenza dei figli, l’emancipazione dei genitori dai figli, il pensionamento e la vecchiaia, la morte sono alcune delle tappe evolutive significative, attraverso cui passa e cresce una famiglia.
Il motore di questo processo di crescita è dato dall’interazione di due forze, apparentemente contrapposte, ma in realtà in continuo equilibrio dinamico: una forza che mira al mantenimento di uno stato di equilibrio raggiunto, quasi nel tentativo di salvaguardare una identità, l’omeostasi, e una forza che spinge verso il superamento di quanto già conquistato e costruito, perché già non più funzionale alle esigenze e ai bisogni dei singoli membri – anch’essi in evoluzione costante – e alle richieste della realtà esterna: questa forza la chiamiamo spinta al cambiamento.
L’interazione continua tra queste due forze, l’omeostasi e il cambiamento, fa sì che la famiglia, nel suo insieme, possa costruire la sua storia e procedere nella sua crescita evolutiva. Cfr. Minuchin S.; “Famiglie e terapia della famiglia”, Astrolabio, Roma, 1976. Cfr. Minuchin S.; Rosman B. L.; Baker L.; “Famiglie Psicosomatiche”, Astrolabio, Roma, 1980.
4.Psicosomatica e disturbi del comportamento alimentare
Terapia della Famiglia
Il contributo più importante dato alla psicosomatica dalle teorie sistemiche è quello del pediatra e psichiatra argentino Salvador Minuchin[i], maggior esponente dell’indirizzo strutturale della terapia familiare.
La terapia familiare strutturale mira a riconoscere, esprimere e risolvere i conflitti latenti evitando lo stress emotivo; ad individuare e rafforzare l’autonomia dei singoli membri e dei sottosistemi e a stimolare e valorizzare ogni potenzialità di cambiamento, di evoluzione e di crescita della famiglia.
Il presupposto di base della terapia familiare si fonda sul concetto che l’uomo non è isolato, al contrario, in quanto individuo, agisce e reagisce all’interno dei gruppi sociali.
Mentre i terapeuti orientati all’approccio individuale sono inclini a vedere l’individuo come il depositario della patologia e a raccogliere soltanto i dati che si possono ottenere dal singolo paziente o che lo riguardano, i terapeuti familiari fanno partecipare alla terapia tutti i componenti della famiglia, cosicché non c’è bisogno di postulare l’introiezione delle figure familiari tramite la terapia individuale.
«La famiglia è la matrice dell’identità[ii]».
Ogni uomo che nasce, si impianta nel tessuto familiare specifico (razziale, culturale, religioso, ecc.). All’infinitezza dell’essenza neonata, la famiglia pone limiti e condizionamenti, positivi e negativi. All’interno dello scenario sociale la famiglia si configura come un fattore significativo del processo evolutivo, si delinea come un gruppo naturale che regola le reazioni dei suoi componenti rispetto agli stimoli, difatti la sua organizzazione e la sua struttura proiettano e qualificano l’esperienza dei membri stessi. La “coscienza familiare” si esprime attraverso i nomi prescelti, il ricordo delle persone care scomparse, le simbologie peculiari di ogni “clan” familiare, le usanze intrinseche. Con il trascorrere degli anni la mente umana si sviluppa incamerando tutti stimoli che l’ambiente gli fornisce, le informazioni assimilate e immagazzinate divengono parte dell’individuo, del modo di porsi nel contesto sociale ove interagisce.
La famiglia diviene il “laboratorio” dove ciascun membro costruisce il senso di identità[iii], che si erige su due elementi: il senso di appartenenza e il senso di differenzazione. Il senso di appartenenza si forma da bambino, man mano che si sviluppa l’adattamento al gruppo familiare di appartenenza e con l’appropriarsi dei modelli transazionali della struttura familiare, che permangono nelle diverse circostanze della vita. Il senso di differenzazione e di individualità si forma con la partecipazione, sia a differenti sottosistemi[iv] in diversi contesti familiari, sia a gruppi extra-familiari.
La struttura della famiglia è un sistema socio-culturale aperto e in continua trasformazione, spesso è sottoposta a stimoli che le offrono la possibilità di adattarsi a situazioni che cambiano senza perdere quella continuità che dà uno schema di riferimento ai suoi componenti.
Bibliografia CANESTRERI R., GODINO A., “Trattato di psicologia”, CLUEB, Bologna, 2002. DSM-IV, “Manuale Diagnostico e statistico dei disturbi mentali”, Masson,2004.
ERCOLANI M., “Malati di Dolore”, Zanichelli, Bologna, 2001.
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KÜBLER-ROSS E.; “La morte e il morire”, Cittadella Editrice, Assisi,2005
LERMA M., Articolo CONVEGNO INTERNAZIONALE “I Pionieri della Terapia familiare” Roma 8/10 dicembre 2000 organizzato da Accademia di psicoterapia della famiglia di Roma, Istituto di terapia familiare di Firenze, Scuola romana di psicoterapia familiare di Roma, www.formazione.eu.com, 2007.
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MINUCHIN S.; “Famiglie e terapia della famiglia”, Astrolabio, Roma, 1976.
NOLE’ A., DILORENZO M. , “L’Approccio Sistemico”, Dispensa del Corso di Specializzazione in Psicoterapia Relazionale, Potenza, 2007.
PELLEGRINO F.; “Psicosomatica”, Il Saggiatore, Milano, 1998.
TRENTIN R.; “Gli atteggiamenti sociali”, Bollati Boringhieri, Torino, 2002.
TROMBINI G.; BALDONI F., “Disturbi psicosomatici”, Il Mulino, Bologna, 2001.
[i] «Salvador Minuchin è uno dei pochi pionieri viventi ed ancora operanti. Nato in Argentina da una famiglia di ebrei russi ivi immigrati, cresciuto in un contesto patriarcale, Minuchin ha tratto dalle sue esperienze di vita infantili il senso della struttura familiare come sede di organizzazione, di interdipendenza, di regole per salvaguardare sia il funzionamento del sistema familiare nel suo complesso che i margini di libertà di ciascun componente.
Divenuto medico pediatra, ha lavorato dapprima in Israele per i bambini orfani e immigrati, quindi si è trasferito in U.S.A. per specializzarsi in psichiatria.
Negli anni ‘50, è stato chiamato a New York a dirigere un centro residenziale per ragazzi delinquenti. Qui ha sperimentato i limiti del trattamento psicoanalitico per recuperare tali soggetti senza il coinvolgimento delle loro famiglie. Da questa esperienza deriverà per Minuchin l’interesse per il lavoro con le famiglie, in particolare quelle povere e socialmente svantaggiate, caratterizzate da disorganizzazione e indefinitezza di ruoli.
Nel testo del 1974 tradotto in italiano nel 1981 col titolo “Famiglie e terapia della famiglia” (Ed. Astrolabio, Roma) per citare uno dei suoi più diffusi lavori, l’autore illustra con esempi clinici il suo modello di Terapia familiare strutturale, secondo cui il funzionamento della famiglia poggia su alcuni cardini fondamentali: una struttura gerarchica tra le generazioni; la definizione di regole di comportamento; uno stile transazionale compreso fra due estremi: famiglie disimpegnate (legami deboli, scarso senso di responsabilità) e famiglie invischiate (troppo rigidamente collegate, mancanza di chiarezza di confini tra le generazioni).
Nel 1965 Minuchin viene chiamato a dirigere a Filadelfia la Child Guidance Clinic, divenuta, sotto la sua guida, un centro di riferimento internazionale per la T.F. secondo il modello strutturale; la quale negli anni ‘70 diverrà un centro specializzato per il trattamento di alcune patologie giovanili, fra cui l’anoressia, una patologia che cominciava ad assumere dimensioni sociali. Come ci informano U. Telfener e G. Todini la crisi economica degli anni ‘80 e i tagli sulle spese sanitarie hanno interrotto l’ascesa della Child Guidance Clinic, ma non l’attività di Minuchin il quale, trasferitosi a New York, ha continuato ad occuparsi di famiglie svantaggiate e a denunciare il carattere negativo dell’assistenza pubblica volta a focalizzare l’incapacità delle persone piuttosto che agire sulle loro risorse. Attraverso il centro da lui fondato, che oggi porta il suo nome, Minuchin ha continuato ad essere formatore e supervisore e a scrivere di teoria e pratica terapeutica “senza arrendersi”,come lo stesso Minuchin ha affermato.»
Lerma M., Articolo CONVEGNO INTERNAZIONALE “I Pionieri della Terapia familiare”Roma 8/10 dicembre 2000 organizzato da Accademia di psicoterapia della famiglia di Roma, Istituto di terapia familiare di Firenze, Scuola romana di psicoterapia familiare di Roma, www.formazione.eu.com, 2007, Cit. pp.27-28
[ii] Minuchin S.; Rosman B. L.; Baker L.; “Famiglie Psicosomatiche”, Astrolabio, Roma, 1980. Cit. p. 65
8Il senso di identità di ciascun individuo è influenzato dal senso di appartenenza a una specifica famiglia.
[iv]I diversi sottosistemi in una famiglia sono così differenziati: sottosistema dei coniugi (si forma quando due adulti di sesso diverso si uniscono con l’espresso proposito di formare una famiglia; ha compiti specifici che sono vitali per il funzionamento della famiglia. Le capacità richieste per l’attuazione dei compiti sono la complementarità e il reciproco adattamento); sottosistema dei genitori (nella formazione della famiglia un nuovo stadio del ciclo vitale viene raggiunto con la nascita di un figlio; è ora il momento in cui si deve tracciare un confine che permetta al bambino di interagire con entrambi i genitori, escludendolo dal funzionamento specifico della coppia. Man mano che il bambino cresce, le sue esigenze di sviluppo relative sia all’autonomia dei genitori, sia alla loro guida, impongono richieste al sottosistema genitoriale che deve modificarsi per soddisfarle); sottosistema dei fratelli ( è il primo laboratorio sociale in cui i figli possono cimentarsi nelle relazioni tra coetanei. In questo contesto i figli si appoggiano, si isolano, si accusano reciprocamente e imparano l’uno dall’altro. Imparano a negoziare, a cooperare e a competere. Spesso il sottosistema fratelli è una notevole risorsa terapeutica. Cfr. Minuchin S.; “Famiglie e terapia della famiglia”, Astrolabio, Roma, 1976. Cfr. Minuchin S.; Rosman B. L.; Baker L.; “Famiglie Psicosomatiche”, Astrolabio, Roma, 1980.