La metafora con i bambini

La stanza dei giochi: il bambino in terapia familiare
Parlando di metafore, la tematica prende forma e ci trasporta ancor più quando si utilizzano con i bambini. La metafora con i bambini manifesta tutta la sua efficacia nella cornice della spontaneità, ed è per i piccoli un valido linguaggio di comunicazione, capace   di mediare il cambiamento in modo gradevole e fantasioso.  Inoltre, le metafore sono un modo per fornire ai piccoli pazienti esperienze, che potrebbero equipaggiarli di abilità adeguate in situazioni di vita reale. Non solo, l’uso della metafora terapeutica per bambini, aiuta a costruire capacità di problem solving ma favorisce, anche, la consapevolezza di emozioni vissute e accresce l’intelligenza emotiva.  Nell’intervento con i bambini il terapeuta deve fare molta attenzione a non porre limiti ai processi di pensiero del piccolo e considerare che il setting terapeutico familiare con un bambino è diverso rispetto a quello con una famiglia di soli adulti.   A proposito, la stanza di terapia con un bimbo si configura come “stanza dei giochi”, luogo dove il piccolo può manifestare se stesso senza alcuna paura. Ed è qui, che giochi, colori e oggetti di vario genere, misti ad un efficace rapporto terapeutico costituiscono la base per un buon punto di partenza della terapia.
Obiettivo principale del terapeuta, quando è nella stanza con il bambino, è di entrare in contatto con il pensiero del piccolo, esplorare la stanza per conoscersi a vicenda (nel modo particolarissimo in cui lo sanno fare solo i bambini) e dialogare mediante elementi giocosi e/o divertenti, per affrontare argomenti anche molto seri.  La modalità di dialogo tra il terapeuta e il bambino è il principio basilare della comunicazione.
Affinché una comunicazione sia più efficace, il terapeuta deve accomodarsi al piccolo paziente, coordinarsi sui tempi, le pause, il tono e ritmo della del linguaggio bambino. Inoltre, per il terapeuta, che deve avvicinarsi al piccolo paziente, è di fondamentale importanza rivivere i momenti di spontaneità, le fantasie, le gioie di quando si era bambini e utilizzarli come validi strumenti terapeutici. Guardare al bambino che abbiamo dentro è l’elemento sul quale si costruisce il rapporto terapeutico. Nell’ultimo decennio varie ricerche hanno indagato sull’uso terapeutico della metafora con i bambini e si è venuti alla conclusione, che le metafore possono essere utilizzate per:
· Catturare l’attenzione;
· Stimolare il desiderio di apprendere;
· Suscitare l’aspettativa di apprendere;
· Preparare a ciò che verrà in seguito;
· Conoscere le emozioni;
· Evitare il confronto diretto con argomenti potenzialmente angoscianti,
· Ravvivare l’immaginazione;
· Sollecitare con parole e nozioni nuove;
· Arricchire le conoscenze del bambino.
La medesima ricerca ha sottolineato, che non tutti i bambini rispondono al “potere” delle metafore. Alcuni, vuoi per la loro età cronologica, vuoi per lo sviluppo cognitivo possono pensare in modo molto concreto e poco astratto. Per tanto sta nel terapeuta essere un ottimo osservatore e conoscere il più possibile l’universo del piccolo, per rendere la metafora efficace nel favorire il cambiamento e la crescita.
Bambini: fantasia e metafore
“I bambini sono la migliore palestra per avvicinarci alla metafora”
I bambini sono, in genere, molto ricettivi alle metafore e seppure inconsciamente hanno grande dimestichezza ad utilizzarle. Spesso preferiscono ascoltare storie, raccontarle o rappresentarle graficamente.  Nella nostra cultura, gran parte dell’identità infantile è costellata da metafore. Storie, fiabe, cartoni animati, eroi dei film, sono il cibo quotidiano di cui si nutrono bambini e adolescenti. Anche la funzione parentale di modello del ruolo, può essere vista come procedimento metaforico, attraverso il quale il bambino acquisisce il modo di agire “come se” fosse il genitore. La naturalezza con la quale i bambini recepiscono la metafora è una caratteristica dell’infanzia. Così come la fantasia: processo naturale e innato attraverso il quale il bambino impara a dare un senso al mondo esterno.
La fantasia è stata, per lunghi anni, considerata con una funzione genetica e biologica. Pearce fa notare che vi sono due diversi giochi per la crescita del bambino sano. Uno è il gioco per imitazione, dove il piccolo riproduce ciò che vede, l’altro è il gioco simbolico o di fantasia, in cui un oggetto viene trasformato in qualcosa di diverso dalla sua realtà esterna. Questa “metafora di creazione” rappresenta il processo interiore di apprendimento del bambino. Il bambino, in questo modo, trasforma ciò che apprende in un gioco e inconsciamente, intessendo fantasia e creatività, favorisce l’integrazione. Tante sono state le teorie sul processo creativo del gioco e della fantasia. Ricordiamo, che Freud ha sempre sostenuto che la fantasia si sviluppasse dalla privazione e che esprimesse un bisogno dell’esaudimento di un desiderio. Bettlheim amplia il pensiero freudiano, sottolinea l’importanza della fantasia nelle funzioni essenziali della crescita e fa notare come la fantasia spesso salva i bambini dai fallimenti e li aiuta ad affrontare problemi emotivi tipici di alcuni fasi dello sviluppo.  La Montessori considerò la fantasia una tendenza patologica sfavorevole che facilita l’emergere di difetti caratteriali. Del tutto divergente al pensiero della Montessori fu quello di Piaget, che sosteneva il ruolo della fantasia data l’importanza per lo sviluppo cognitivo e sensoriale-motorio del bambino. I giochi simbolici e immaginativi, sono considerati strumenti di crescita della motilità e dello sviluppo consapevole cognitivo-spaziale. Da recenti studi è emerso, che la fantasia può funzionare secondo entrambe le modalità, compensatrice e creativa. Di fatti, i bambini possono usare la fantasia sia per cambiare situazioni spiacevoli e appagare bisogni non soddisfatti, sia per sviluppare capacità puramente creative.
La Axline, pone l’attenzione sulla necessità che il terapeuta debba viaggiare con fantasia di un bambino “senza porvi ordine per dargli un senso”. Inoltre l’autrice fa notare, che ciò che ha senso ed è terapeutico per un bambino, troppo spesso, è considerato insignificante per l’adulto.
Erickson differenzia la fantasia cosciente da quella inconscia. La fantasia cosciente è un modo per appagare un desiderio, ad esempio compiere imprese pur non essendo portati. Le fantasie inconsce, sono comunicazioni della mente inconscia di significative potenzialità che la nostra parte conscia mette in atto appena trova l’occasione giusta. Oaklander sostiene, che nel lavoro con i bambini la fantasia ha un ruolo importante, sia come fonte di divertimento, sia come specchio dei processi vitali interiori del bambino. Attraverso la fantasia si possono esprimere velate paure, descrivere silenziosi desideri e agire problemi.
Conoscere il mondo dei piccoli
«Passeggiavo lungo le vie del centro.
Davanti a me, seduto su un muretto, un uomo dalla lunga barba bianca scolpiva su una pietra.
Le sue mani crearono un uccello dalle enormi ali. Io, affascinata da quanto i miei occhi avevano visto, mi domandavo se sarei mai stata capace di esaltare qualità impercettibili, con la stessa naturalezza e semplicità.»
Si dice che Milton Erickson, maestro della psicoterapia basata sulle metafore, quando gli fu chiesto quali fossero le variabili più importanti per la psicoterapia rispose: “osservare, osservare, osservare”. Prima di utilizzare le metafore nel processo psicoterapeutico è importante osservare il comportamento dei bambini o degli adolescenti. Guardare cos’è che tiene desta la loro attenzione, riconoscere le minime risposte comportamentali e osservare il loro modo di interagire. Fortunatamente i bambini tendono ad essere più espressivi e meno vincolati alle convenzioni sociali rispetto agli adulti. Pertanto, durante la psicoterapia possono essere attenti, irrequieti o distratti, possono interrompere per fare domande, mostrare in modo chiaro ed esplicito i loro interessi o celarli dietro uno guardo riservato e timido. Inoltre, i bambini, così come gli adulti, non comunicano solo con il verbale; in loro possiamo cogliere chiari messaggi anche attraverso il non verbale e questi sono segnali minimi: indicatori di esperienze familiari del bambino.
I segnali minimi, sono la base affinché si possano creare delle metafore familiari al piccolo paziente e facilmente accettabili. Cerchiamo, ora, di capirne di più sui segnali minimi per disporre delle indicazioni che ci agevolano il percorso al mondo dei bambini.
Noi tutti abbiamo l’esperienza per riconoscerli e rispondervi. In particolare, i genitori ci forniscono un ottimo esempio. Nel giro di pochi giorni dalla nascita del loro piccolo, imparano un complesso ricercato assortimento di segnali minimi. Di fatto, prima della nascita il bambino impara a comunicare inizialmente con la madre, che ne percepisce i movimenti, la crescita e il temperamento. Non appena il bambino viene al mondo entrambi i genitori cominciano ad acquisire un linguaggio nuovo. La madre impara a capire quando è il momento di nutrire il suo piccolo, quando è sazio, quando vuole dormire ecc. I genitori imparano a rispondere ai piccoli movimenti del viso che segnalano l’inizio di qualche disturbo.
Quindi, anche se in questo periodo il bambino non possiede alcuna capacità di linguaggio, è evidente che tra il piccolo e i genitori è presente una forma di comunicazione per poter esprimere bisogni e sensazioni. Di fatto, in ogni stadio dello sviluppo, sin dalla nascita emerge spontaneamente fra genitori e bambino un nuovo e complesso accomodamento dei segnali minimi. La capacità di rispondere ai segnali minimi è uno degli strumenti terapeutici di maggiore efficacia di cui uno psicoterapeuta possa disporre. Ed è solo mediante l’identificazione e l’abilità a dare una risposta, che si apre una finestra sull’esperienza personale del bambino. Ad esempio il fatto di adeguarsi al tipo di linguaggio e di servirsene può aiutare il terapeuta a crearsi una propria esperienza interiore delle sensazioni che può avere il bambino e nel contempo, il piccolo sente il terapeuta più similare al suo modo di essere e si predispone a condividere il proprio mondo. Il terapeuta deve sentire nella stanza il piccolo paziente e vedere, ascoltare ed esperire per trovare dentro sé l’emozione, che il bimbo racconta.
Il riconoscimento dell’importanza dei segnali minimi si ebbe negli anni ’60 con l’emergere delle terapie del corpo. Il linguaggio non verbale del corpo divenne allora un nuovo e valido punto su cui gli psicoterapeuti dovevano concentrare la loro attenzione.
Approcci specifici per riconoscere e utilizzare i segnali minimi si trovano nell’opera di Erickson. Erickson andava silenziosamente sviluppando il proprio metodo innovatore di osservazione e utilizzazione di quelli che chiamò minimal cues (segnali minimi) assai prima che si formasse il movimento della terapia del corpo. In questo caso, egli attinse dalle esperienze della propria infanzia e adolescenza, elaborando tutto quanto da bambino gli era naturale. La curiosità infantile e l’osservazione minuziosa (tipica di tutti i bimbi), fu per Erickson il principio base delle sue terapie. Così come, l’utilizzo dei propri ricordi e delle proprie associazioni sono altri strumenti importanti per percepire e comprendere i segnali minimi, affinché si possa conoscere il mondo dei piccoli e indurre significativi movimenti emotivo.
L’approccio di “utilizzazione” alla sintomatologia risale ad Erickson, il quale ha sostenuto, che accettare i sintomi presentati dal paziente inserendoli nella strategia del trattamento è funzionale all’efficacia delle metafore. Un’efficace metafora terapeutica deve essere costruita su tutte le informazioni e su tutti i comportamenti presentati in modo conscio o inconscio dal bambino. Pertanto, anche i sintomi rientrano in quelle informazioni utili alla creazione delle metafore terapeutiche.
Ad oggi le posizioni prevalenti sull’origine e il trattamento dei sintomi si possono classificare in quattro punti.
Una prima teoria ritiene che i sintomi siano manifestazioni di esperienze traumatiche del passato, che risalgono, generalmente, alla prima infanzia o alla fanciullezza e, che possono essere risolti con un ritorno alla causa che li ha originati. Questo percorso a ritroso può avere carattere cognitivo e analitico, oppure può verificarsi perché stimolato da una intensa emozione. In entrambi i casi, la relazione con la causa di origine è considerata la l’agente su cui si basa la guarigione.
La seconda posizione vede nei sintomi il risultato di esperienze che condizionano di un apprendimento carente. Il trattamento è incentrato sul presente e mira a strutturare le esperienze cognitive del riapprendi mento. In questo approccio il concetto di causa originatrice è irrilevante.
La terza posizione ha una concezione psiconeurofisiologica dei sintomi, considerando sia le componenti organiche, sia quelle comportamentali. Secondo questo approccio, per stabilire l’eziologia dei sintomi si prendono in esame i fattori genetici e biochimici, unitamente alle influenze ambientali.
La quarta posizione considera il sintomo come un messaggio del’inconscio, utilizzabile per la sua stessa risoluzione, senza tener conto delle cause del passato. Erickson è stato il massimo esponente di quest’ultima teorizzazione e ha insistito sull’importanza dell’alleviamento del sintomo, prima di procedere all’indagine di qualsiasi altro fattore psicodinamico. La specificità della tecnica di Erickson nell’utilizzare il sintomo per provocare l’eliminazione, ci da un tipo di modello dove il sintomo stesso può essere trasformato nella soluzione.    Secondo questo approccio il terapeuta deve dare poco spazio alla rigorosa aderenza delle procedure terapeutiche convenzionali.   Erickson stesso era noto per la disponibilità e l’elasticità con cui offriva la sua terapia.   Certo, occorre fissare dei limiti; non ci si può attendere dai terapeuti che siano pronti a qualsiasi cosa, così come faceva Erickson. L’importante è, che l’elasticità di far terapia può rivelare dimensioni del trattamento, in altro modo impossibili da emergere.
Utilizzare il sintomo che si presenta significa, che ogni approccio è pertinente in relazione agli elementi di ogni determinata situazione clinica. Per taluni pazienti potrebbe essere valido un intervento nettamente cognitivo, per altri un’esperienza catartica sarebbe più utile e per altri ancora, potrebbe essere più adeguata una tecnica diretta di modificazione del comportamento. Pertanto, si può affermare che: sono i bisogni e la sintomatologia del paziente a stabilire il tipo di intervento specifico.
All’internodi questa cornice dobbiamo inserire l’approccio alla terapia infantile, peraltro molto vicino alla visione sistemica. I sintomi sono considerati come il risultato di risorse bloccate, ossia come il blocco delle capacità e potenzialità del bambino e non come manifestazione di patologia psichica o sociale.
I blocchi hanno origine dalla corretta o falsa percezione che il bambino ha dei vissuti esperenziali. Problemi relativi alla famiglia, alle amicizie e scolastici possono determinare un sovraccarico di pressioni che bloccano le naturali capacità funzionali e potenzialità di apprendimento del bambino. A causa di questo sovraccarico si ostacola il modo di sentire del bambino e di conseguenza quello di agire è diverso da quello del suo vero sé. Quando il piccolo non riesce ad essere se stesso, le risorse interne della sua personalità non sono prontamente disponibili. I sintomi, che in questo caso consideriamo comunicazione simbolica o metaforica dell’inconscio, non solo segnalano una sofferenza nell’ambito del sistema, ma ne forniscono un’attenta descrizione. Pertanto, il sintomo è il mezzo di comunicazione del messaggio. Heller sostiene che tutti i disturbi e sintomi sono delle metafore che contengono la storia di ciò che è il problema. Il terapeuta ha l’onere di realizzare metafore, che racchiudono una storia, all’interno della quale è possibile trovare eventuali soluzioni. «La metafora è il messaggio».
Mills J.,C., Croweley R.,J., “Metafore terapeutiche per i bambini”, Casa Editrice Astrolabio, Roma, 1988. Cit. p 42
Cfr. Mills J.,C., Croweley R.,J., “Metafore terapeutiche per i bambini”, Casa Editrice Astrolabio, Roma, 1988.
Cfr. Mills J.,C., Croweley R.,J., “Metafore terapeutiche per i bambini”, Casa Editrice Astrolabio, Roma, 1988.
Stern N. D., “La costellazione materna” , Bollati Borigheri, Torino, 2003
Terapia primaria, bioenergetica, terapia reichiana.
Mills J.,C., Croweley R.,J., “Metafore terapeutiche per i bambini”, Casa Editrice Astrolabio, Roma, 1988. Cit. p 62

La stanza dei giochi: il bambino in terapia familiare
Parlando di metafore, la tematica prende forma e ci trasporta ancor più quando si utilizzano con i bambini. La metafora con i bambini manifesta tutta la sua efficacia nella cornice della spontaneità, ed è per i piccoli un valido linguaggio di comunicazione, capace   di mediare il cambiamento in modo gradevole e fantasioso.  Inoltre, le metafore sono un modo per fornire ai piccoli pazienti esperienze, che potrebbero equipaggiarli di abilità adeguate in situazioni di vita reale. Non solo, l’uso della metafora terapeutica per bambini, aiuta a costruire capacità di problem solving ma favorisce, anche, la consapevolezza di emozioni vissute e accresce l’intelligenza emotiva.  Nell’intervento con i bambini il terapeuta deve fare molta attenzione a non porre limiti ai processi di pensiero del piccolo e considerare che il setting terapeutico familiare con un bambino è diverso rispetto a quello con una famiglia di soli adulti.   A proposito, la stanza di terapia con un bimbo si configura come “stanza dei giochi”, luogo dove il piccolo può manifestare se stesso senza alcuna paura. Ed è qui, che giochi, colori e oggetti di vario genere, misti ad un efficace rapporto terapeutico costituiscono la base per un buon punto di partenza della terapia.Obiettivo principale del terapeuta, quando è nella stanza con il bambino, è di entrare in contatto con il pensiero del piccolo, esplorare la stanza per conoscersi a vicenda (nel modo particolarissimo in cui lo sanno fare solo i bambini) e dialogare mediante elementi giocosi e/o divertenti, per affrontare argomenti anche molto seri.  La modalità di dialogo tra il terapeuta e il bambino è il principio basilare della comunicazione.
Affinché una comunicazione sia più efficace, il terapeuta deve accomodarsi al piccolo paziente, coordinarsi sui tempi, le pause, il tono e ritmo della del linguaggio bambino. Inoltre, per il terapeuta, che deve avvicinarsi al piccolo paziente, è di fondamentale importanza rivivere i momenti di spontaneità, le fantasie, le gioie di quando si era bambini e utilizzarli come validi strumenti terapeutici. Guardare al bambino che abbiamo dentro è l’elemento sul quale si costruisce il rapporto terapeutico. Nell’ultimo decennio varie ricerche hanno indagato sull’uso terapeutico della metafora con i bambini e si è venuti alla conclusione, che le metafore possono essere utilizzate per:· Catturare l’attenzione;· Stimolare il desiderio di apprendere;· Suscitare l’aspettativa di apprendere;· Preparare a ciò che verrà in seguito;· Conoscere le emozioni;· Evitare il confronto diretto con argomenti potenzialmente angoscianti,· Ravvivare l’immaginazione;· Sollecitare con parole e nozioni nuove;· Arricchire le conoscenze del bambino.La medesima ricerca ha sottolineato, che non tutti i bambini rispondono al “potere” delle metafore. Alcuni, vuoi per la loro età cronologica, vuoi per lo sviluppo cognitivo possono pensare in modo molto concreto e poco astratto. Per tanto sta nel terapeuta essere un ottimo osservatore e conoscere il più possibile l’universo del piccolo, per rendere la metafora efficace nel favorire il cambiamento e la crescita.
Bambini: fantasia e metafore“I bambini sono la migliore palestra per avvicinarci alla metafora”I bambini sono, in genere, molto ricettivi alle metafore e seppure inconsciamente hanno grande dimestichezza ad utilizzarle. Spesso preferiscono ascoltare storie, raccontarle o rappresentarle graficamente.  Nella nostra cultura, gran parte dell’identità infantile è costellata da metafore. Storie, fiabe, cartoni animati, eroi dei film, sono il cibo quotidiano di cui si nutrono bambini e adolescenti. Anche la funzione parentale di modello del ruolo, può essere vista come procedimento metaforico, attraverso il quale il bambino acquisisce il modo di agire “come se” fosse il genitore. La naturalezza con la quale i bambini recepiscono la metafora è una caratteristica dell’infanzia. Così come la fantasia: processo naturale e innato attraverso il quale il bambino impara a dare un senso al mondo esterno. La fantasia è stata, per lunghi anni, considerata con una funzione genetica e biologica. Pearce fa notare che vi sono due diversi giochi per la crescita del bambino sano. Uno è il gioco per imitazione, dove il piccolo riproduce ciò che vede, l’altro è il gioco simbolico o di fantasia, in cui un oggetto viene trasformato in qualcosa di diverso dalla sua realtà esterna. Questa “metafora di creazione” rappresenta il processo interiore di apprendimento del bambino. Il bambino, in questo modo, trasforma ciò che apprende in un gioco e inconsciamente, intessendo fantasia e creatività, favorisce l’integrazione. Tante sono state le teorie sul processo creativo del gioco e della fantasia. Ricordiamo, che Freud ha sempre sostenuto che la fantasia si sviluppasse dalla privazione e che esprimesse un bisogno dell’esaudimento di un desiderio. Bettlheim amplia il pensiero freudiano, sottolinea l’importanza della fantasia nelle funzioni essenziali della crescita e fa notare come la fantasia spesso salva i bambini dai fallimenti e li aiuta ad affrontare problemi emotivi tipici di alcuni fasi dello sviluppo.  La Montessori considerò la fantasia una tendenza patologica sfavorevole che facilita l’emergere di difetti caratteriali. Del tutto divergente al pensiero della Montessori fu quello di Piaget, che sosteneva il ruolo della fantasia data l’importanza per lo sviluppo cognitivo e sensoriale-motorio del bambino. I giochi simbolici e immaginativi, sono considerati strumenti di crescita della motilità e dello sviluppo consapevole cognitivo-spaziale. Da recenti studi è emerso, che la fantasia può funzionare secondo entrambe le modalità, compensatrice e creativa. Di fatti, i bambini possono usare la fantasia sia per cambiare situazioni spiacevoli e appagare bisogni non soddisfatti, sia per sviluppare capacità puramente creative.La Axline, pone l’attenzione sulla necessità che il terapeuta debba viaggiare con fantasia di un bambino “senza porvi ordine per dargli un senso”. Inoltre l’autrice fa notare, che ciò che ha senso ed è terapeutico per un bambino, troppo spesso, è considerato insignificante per l’adulto. Erickson differenzia la fantasia cosciente da quella inconscia. La fantasia cosciente è un modo per appagare un desiderio, ad esempio compiere imprese pur non essendo portati. Le fantasie inconsce, sono comunicazioni della mente inconscia di significative potenzialità che la nostra parte conscia mette in atto appena trova l’occasione giusta. Oaklander sostiene, che nel lavoro con i bambini la fantasia ha un ruolo importante, sia come fonte di divertimento, sia come specchio dei processi vitali interiori del bambino. Attraverso la fantasia si possono esprimere velate paure, descrivere silenziosi desideri e agire problemi.
Conoscere il mondo dei piccoli«Passeggiavo lungo le vie del centro.Davanti a me, seduto su un muretto, un uomo dalla lunga barba bianca scolpiva su una pietra.Le sue mani crearono un uccello dalle enormi ali. Io, affascinata da quanto i miei occhi avevano visto, mi domandavo se sarei mai stata capace di esaltare qualità impercettibili, con la stessa naturalezza e semplicità.»
Si dice che Milton Erickson, maestro della psicoterapia basata sulle metafore, quando gli fu chiesto quali fossero le variabili più importanti per la psicoterapia rispose: “osservare, osservare, osservare”. Prima di utilizzare le metafore nel processo psicoterapeutico è importante osservare il comportamento dei bambini o degli adolescenti. Guardare cos’è che tiene desta la loro attenzione, riconoscere le minime risposte comportamentali e osservare il loro modo di interagire. Fortunatamente i bambini tendono ad essere più espressivi e meno vincolati alle convenzioni sociali rispetto agli adulti. Pertanto, durante la psicoterapia possono essere attenti, irrequieti o distratti, possono interrompere per fare domande, mostrare in modo chiaro ed esplicito i loro interessi o celarli dietro uno guardo riservato e timido. Inoltre, i bambini, così come gli adulti, non comunicano solo con il verbale; in loro possiamo cogliere chiari messaggi anche attraverso il non verbale e questi sono segnali minimi: indicatori di esperienze familiari del bambino.I segnali minimi, sono la base affinché si possano creare delle metafore familiari al piccolo paziente e facilmente accettabili. Cerchiamo, ora, di capirne di più sui segnali minimi per disporre delle indicazioni che ci agevolano il percorso al mondo dei bambini.Noi tutti abbiamo l’esperienza per riconoscerli e rispondervi. In particolare, i genitori ci forniscono un ottimo esempio. Nel giro di pochi giorni dalla nascita del loro piccolo, imparano un complesso ricercato assortimento di segnali minimi. Di fatto, prima della nascita il bambino impara a comunicare inizialmente con la madre, che ne percepisce i movimenti, la crescita e il temperamento. Non appena il bambino viene al mondo entrambi i genitori cominciano ad acquisire un linguaggio nuovo. La madre impara a capire quando è il momento di nutrire il suo piccolo, quando è sazio, quando vuole dormire ecc. I genitori imparano a rispondere ai piccoli movimenti del viso che segnalano l’inizio di qualche disturbo. Quindi, anche se in questo periodo il bambino non possiede alcuna capacità di linguaggio, è evidente che tra il piccolo e i genitori è presente una forma di comunicazione per poter esprimere bisogni e sensazioni. Di fatto, in ogni stadio dello sviluppo, sin dalla nascita emerge spontaneamente fra genitori e bambino un nuovo e complesso accomodamento dei segnali minimi. La capacità di rispondere ai segnali minimi è uno degli strumenti terapeutici di maggiore efficacia di cui uno psicoterapeuta possa disporre. Ed è solo mediante l’identificazione e l’abilità a dare una risposta, che si apre una finestra sull’esperienza personale del bambino. Ad esempio il fatto di adeguarsi al tipo di linguaggio e di servirsene può aiutare il terapeuta a crearsi una propria esperienza interiore delle sensazioni che può avere il bambino e nel contempo, il piccolo sente il terapeuta più similare al suo modo di essere e si predispone a condividere il proprio mondo. Il terapeuta deve sentire nella stanza il piccolo paziente e vedere, ascoltare ed esperire per trovare dentro sé l’emozione, che il bimbo racconta.Il riconoscimento dell’importanza dei segnali minimi si ebbe negli anni ’60 con l’emergere delle terapie del corpo. Il linguaggio non verbale del corpo divenne allora un nuovo e valido punto su cui gli psicoterapeuti dovevano concentrare la loro attenzione. Approcci specifici per riconoscere e utilizzare i segnali minimi si trovano nell’opera di Erickson. Erickson andava silenziosamente sviluppando il proprio metodo innovatore di osservazione e utilizzazione di quelli che chiamò minimal cues (segnali minimi) assai prima che si formasse il movimento della terapia del corpo. In questo caso, egli attinse dalle esperienze della propria infanzia e adolescenza, elaborando tutto quanto da bambino gli era naturale. La curiosità infantile e l’osservazione minuziosa (tipica di tutti i bimbi), fu per Erickson il principio base delle sue terapie. Così come, l’utilizzo dei propri ricordi e delle proprie associazioni sono altri strumenti importanti per percepire e comprendere i segnali minimi, affinché si possa conoscere il mondo dei piccoli e indurre significativi movimenti emotivo.
L’approccio di “utilizzazione” alla sintomatologia risale ad Erickson, il quale ha sostenuto, che accettare i sintomi presentati dal paziente inserendoli nella strategia del trattamento è funzionale all’efficacia delle metafore. Un’efficace metafora terapeutica deve essere costruita su tutte le informazioni e su tutti i comportamenti presentati in modo conscio o inconscio dal bambino. Pertanto, anche i sintomi rientrano in quelle informazioni utili alla creazione delle metafore terapeutiche. Ad oggi le posizioni prevalenti sull’origine e il trattamento dei sintomi si possono classificare in quattro punti.Una prima teoria ritiene che i sintomi siano manifestazioni di esperienze traumatiche del passato, che risalgono, generalmente, alla prima infanzia o alla fanciullezza e, che possono essere risolti con un ritorno alla causa che li ha originati. Questo percorso a ritroso può avere carattere cognitivo e analitico, oppure può verificarsi perché stimolato da una intensa emozione. In entrambi i casi, la relazione con la causa di origine è considerata la l’agente su cui si basa la guarigione.La seconda posizione vede nei sintomi il risultato di esperienze che condizionano di un apprendimento carente. Il trattamento è incentrato sul presente e mira a strutturare le esperienze cognitive del riapprendi mento. In questo approccio il concetto di causa originatrice è irrilevante.La terza posizione ha una concezione psiconeurofisiologica dei sintomi, considerando sia le componenti organiche, sia quelle comportamentali. Secondo questo approccio, per stabilire l’eziologia dei sintomi si prendono in esame i fattori genetici e biochimici, unitamente alle influenze ambientali.La quarta posizione considera il sintomo come un messaggio del’inconscio, utilizzabile per la sua stessa risoluzione, senza tener conto delle cause del passato. Erickson è stato il massimo esponente di quest’ultima teorizzazione e ha insistito sull’importanza dell’alleviamento del sintomo, prima di procedere all’indagine di qualsiasi altro fattore psicodinamico. La specificità della tecnica di Erickson nell’utilizzare il sintomo per provocare l’eliminazione, ci da un tipo di modello dove il sintomo stesso può essere trasformato nella soluzione.    Secondo questo approccio il terapeuta deve dare poco spazio alla rigorosa aderenza delle procedure terapeutiche convenzionali.   Erickson stesso era noto per la disponibilità e l’elasticità con cui offriva la sua terapia.   Certo, occorre fissare dei limiti; non ci si può attendere dai terapeuti che siano pronti a qualsiasi cosa, così come faceva Erickson. L’importante è, che l’elasticità di far terapia può rivelare dimensioni del trattamento, in altro modo impossibili da emergere.Utilizzare il sintomo che si presenta significa, che ogni approccio è pertinente in relazione agli elementi di ogni determinata situazione clinica. Per taluni pazienti potrebbe essere valido un intervento nettamente cognitivo, per altri un’esperienza catartica sarebbe più utile e per altri ancora, potrebbe essere più adeguata una tecnica diretta di modificazione del comportamento. Pertanto, si può affermare che: sono i bisogni e la sintomatologia del paziente a stabilire il tipo di intervento specifico.All’internodi questa cornice dobbiamo inserire l’approccio alla terapia infantile, peraltro molto vicino alla visione sistemica. I sintomi sono considerati come il risultato di risorse bloccate, ossia come il blocco delle capacità e potenzialità del bambino e non come manifestazione di patologia psichica o sociale.I blocchi hanno origine dalla corretta o falsa percezione che il bambino ha dei vissuti esperenziali. Problemi relativi alla famiglia, alle amicizie e scolastici possono determinare un sovraccarico di pressioni che bloccano le naturali capacità funzionali e potenzialità di apprendimento del bambino. A causa di questo sovraccarico si ostacola il modo di sentire del bambino e di conseguenza quello di agire è diverso da quello del suo vero sé. Quando il piccolo non riesce ad essere se stesso, le risorse interne della sua personalità non sono prontamente disponibili. I sintomi, che in questo caso consideriamo comunicazione simbolica o metaforica dell’inconscio, non solo segnalano una sofferenza nell’ambito del sistema, ma ne forniscono un’attenta descrizione. Pertanto, il sintomo è il mezzo di comunicazione del messaggio. Heller sostiene che tutti i disturbi e sintomi sono delle metafore che contengono la storia di ciò che è il problema. Il terapeuta ha l’onere di realizzare metafore, che racchiudono una storia, all’interno della quale è possibile trovare eventuali soluzioni. «La metafora è il messaggio».
Mills J.,C., Croweley R.,J., “Metafore terapeutiche per i bambini”, Casa Editrice Astrolabio, Roma, 1988. Cit. p 42Cfr. Mills J.,C., Croweley R.,J., “Metafore terapeutiche per i bambini”, Casa Editrice Astrolabio, Roma, 1988.Cfr. Mills J.,C., Croweley R.,J., “Metafore terapeutiche per i bambini”, Casa Editrice Astrolabio, Roma, 1988.Stern N. D., “La costellazione materna” , Bollati Borigheri, Torino, 2003Terapia primaria, bioenergetica, terapia reichiana.Mills J.,C., Croweley R.,J., “Metafore terapeutiche per i bambini”, Casa Editrice Astrolabio, Roma, 1988. Cit. p 62