ANSIA E ATTACCO DI PANICO: QUAL’E’ LA RELAZIONE CON L’EMOZIONE DI PAURA?

Psicologa Psicoterapeuta Filardi Rosita 

“Siamo minacciati dalla sofferenza da tre versanti: dal nostro corpo, condannato al declino e al disfacimento e che non può funzionare senza il dolore e l’ansia come segnali di pericolo; dal mondo esterno, che può scagliarsi contro di noi con la sua terribile e formidabile forza distruttiva; infine, dalle nostre relazioni con gli altri” – Sigmund Freud

Nel disturbo di panico vi è un attacco inaspettato, e spesso inspiegabile,  che può partire da uno stato ansioso oppure di quiete assoluto ma comunque è caratterizzato da una serie di sintomi maestosi che spesso sono scioccanti per il soggetto che li vive. 

Attualmente i manuali diagnostici (DSM 5) definiscono l’attacco di panico come un periodo di paura intenso in cui una successione di sintomi (palpitazione, cardiopalmo o tachicardia, sudorazione, tremori fini o grandi scosse, dispnea o sensazione di soffocamento, dolore al petto, brividi o vampate di calore, formicolio, vertigini,  nausea, derealizzazione, depersonalizzazione, paura di perdere il controllo e paura di morire) si verificano improvvisamente raggiungendo un picco in dieci  minuti per poi attenuarsi progressivamente.

Ciò che caratterizza il disturbo è la presenza di attacchi inaspettati e ricorrenti, che si associa al timore di averne altri (circolo vizioso “paura della paura”) e alla paura di “impazzire”, che a sua volta provoca un restringimento delle attività che la persona si sente in grado di realizzare.

In circa un terzo dei disturbi di panico tale restringimento diviene estremo; in questo caso si parla di disturbo di panico con agorafobia. Con questo termine facciamo riferimento ad un insieme di paure che hanno principalmente per oggetto i luoghi pubblici e frequentati, dai quali sarebbe difficoltoso, imbarazzante, improbabile, ricevere aiuto o allontanarsi in caso di attacco di panico. Molti pazienti che presentano questa aggravante del disturbo sono incapaci di allontanarsi dalla loro casa o lo fanno solo se accompagnati, innescando un meccanismo di evitamento che si consolida e generalizza, manifestano una preoccupazione a ritrovarsi da soli, una  eccessiva paura ad uscire e a guidare la propria auto, sentendosi giorno dopo giorno più insicuri e spesso bloccandosi nelle proprie attività restando chiusi in casa.

La diffusione di questa patologia è elevata, coinvolge circa il 10% della popolazione con una prevalenza nell’esordio per soggetti in età adolescenziale (14 – 25 anni) e di sesso femminile.

Per comprendere meglio il disturbo è importante affrontare il tema connesso ad una delle principali emozioni che vi sono legate, la paura

 La paura: un’emozione protettiva

Non è sensato occuparsi di attacchi di panico senza prima chiarire le funzioni della paura. Solo dopo è possibile cogliere gli attacchi di panico in una prospettiva chiara e utilizzabile. 

Generalmente, nel pensiero comune, la paura non gode di buona reputazione. È vissuta come un ostacolo e come un accadimento psichico negativo. Le persone si sentono “serrate” dalla paura; “prigioniere”, che vorrebbero “liberarsi” e si  impegnano  “vincere” o a “superare” la paura anziché viverla ed ascoltarla .

Ed è frequente che chi ricorre alla psicoterapia abbia l’aspettativa di essere, appunto, “liberato” dalle proprie paure o, addirittura, dalle emozioni in quanto tali.

Le emozioni e, nello specifico, la paura, come ogni altro strumento che ci viene dato in dotazione dalla biologia ha un valore potenzialmente adattivo. La paura in sostanza ci permette di affrontare un pericolo, un evento nocivo, al meglio delle nostre possibilità.

Racconto sempre, a tutti i miei pazienti (giovani e adulti ), la capacità del topolino, che se si vive e ascolta lo stato emotivo della paura diviene  capace di sopravvivere all’attacco del gatto, fruttando la risorsa di agilità e scatto.  

E di tutti i topolini che vengono catturati? La mia risposta, metaforicamente parlando,  : “sono quelli bloccati dalla paura e terrorizzati dalla sensazione, che invece di scappare si rallentano rischiando cosi di essere un gustoso spuntino per il predatore . 

Ma a che cosa serve la paura? Perché siamo stati dotati di un’emozione tanto potente? 

Essa ci “informa” di un pericolo e ci “prepara” biologicamente ad affrontarlo; ma oltre a queste funzioni “individuali”, la paura ha un importante mansione sociale e collettiva. Infatti la paura provata dal singolo comunica anche ai membri della comunità una possibile minaccia, consentendo al gruppo di preparasi per affrontarla o di aiutare e proteggere la persona impaurita. E’ una sorta di segnale di allarme che chiama all’unità. La paura è coesiva. Instillate una qualche paura in un gruppo e questo si compatterà come un sol uomo.

Non ci stupisce, data proprio l’importanza di questa emozione, che essa sia sopravvissuta a migliaia e migliaia di anni di evoluzione e sia riconoscibile in modo transculturale in tutti e da tutti i gruppi sociali appartenenti a qualsiasi area geografica.

Dobbiamo riconoscere, che la paura è un’emozione vitale, assolutamente indispensabile. Chi non ha avuto paura una volta, potrebbe non averne mai più bisogno… La paura, come ogni altra emozione, deve essere accolta, con attenzione e con rispetto, osservata e utilizzata per quello che è. Decisiva, per l’efficacia dell’esercizio delle sue specifiche funzioni, è la gestione della paura.

Dalla gestione della paura deriva gran parte degli elementi dell’esperienza determinanti benessere o malessere, psichico e relazionale, come si può vedere bene, per esempio, negli attacchi di panico. E anche quando la paura sembra sovrastarci, non è la paura da rifuggire. Sarebbe come se uno, all’accendersi di una spia sul cruscotto dell’automobile, si mettesse a urlare e scappasse via a più non posso. O implorasse il meccanico di estirpare quella spia luminosa; o chiedesse a un allenatore di aiutarlo a temprare il proprio carattere, fino al punto da riuscire a sopportare l’accensione della spia luminosa come se niente fosse.

Insensatezze, certo, che però, oltre a essere talvolta perseguite dai pazienti, dai loro parenti e dagli educatori, vengono patrocinate dagli stessi terapeuti più spesso di quanto non si immagini, quando, per esempio, suggeriscono di non dare importanza, di non dare ascolto all’ansia, alla paura o all’angoscia. Bisogna, invece, vivere la paura  e  cercare di sapere che cosa segnala l’accendersi di quella spia; e poi, conseguentemente, valutare il da farsi più adeguato.

In conclusione possiamo affermare che la paura è un’emozione fondamentale e protettiva del nostro essere nel mondo.

 Il rapporto con le emozioni negli attacchi di panico

La più importante delle radici degli attacchi di panico è costituita dall’incapacità di percepire e riconoscere le emozioni, come conseguenza di una specie di “analfabetismo emozionale“, che si è strutturato progressivamente nel corso della vita, di pari passo con la strutturazione della propria identità. Il paziente, non riuscendo a riconoscere l’emozione come un evento mentale unitario, percepisce slegate fra loro le singole espressioni fisiche di essa.

È come se percepisse slegate tra loro le tessere di un mosaico. Non possono che apparirgli del tutto prive di senso. Ma il “mosaico”, che lui non riesce a integrare, e di cui non ha consapevolezza perché neppure lo percepisce, non è esterno a lui. Lo riguarda direttamente. È dentro di lui. Sensazioni, quindi, fortissime e insensate. È allora un tentativo di integrazione quello che il paziente fa, quando cerca di ricomporre le tessere “insensate”, trattandole come fossero “sintomi” di qualche malattia biologica.

Non è un caso che uno dei primi luoghi che “accoglie” questi soggetti sia il pronto soccorso di un ospedale ed il primo professionista a cui si rivolgono sia il medico, mettendosi alla ricerca “del pezzo biologico mal funzionante”. Si tratta dell’attivazione di una intelligenza. Che però sbaglia. L’errore sta nel fatto che (almeno “localmente”, in quella specifica esperienza) non è disponibile una intelligenza emotiva, ma soltanto un pensiero analitico, che si mette a osservare “dall’esterno”, alla lontana, e che quindi si muove come fosse sordo e cieco verso le emozioni in atto, perché, in questi casi, si attiva in modo disgiunto dallo stesso mondo delle emozioni che gli si presenta.

L’emozione è stata, sì, percepita nelle sue singole componenti, ma non è stata riconosciuta nel suo insieme. Percepita come fosse de-strutturata nelle sue componenti sensoriali, che sono rimaste tra di loro separate.

In quelle condizioni, la cosa più ragionevole che il soggetto, nella nostra cultura, può fare per strutturare una “figura” che si stagli sensata dallo “sfondo” indifferenziato è pensare di essere ammalato di una sconosciuta malattia fulminante. E si allarma, ovviamente. Con i dati al momento a sua disposizione, sta funzionando bene. “Fanno presto a dirmi: ‘non è niente’. Vorrei vederli io, cosa farebbero loro al mio posto!”, protestano i pazienti contro le pseudorassicurazioni profuse a piene mani da parenti, amici e, purtroppo, spesso anche dai terapeuti.

Non trovando un nesso riconoscibile, il paziente si terrorizza, e, nella prospettiva di una imminente catastrofe, pensa (più precisamente: “sente”) come unica risorsa disponibile nell’immediato la fuga dalla situazione ansiogena, e come unica risorsa disponibile per il futuro la prevenzione, attraverso l’evitamento di ogni situazione potenzialmente ansiogena. Per questa strada, progressivamente, il paziente tende a proteggersi e ad evitare ogni situazione vitale, in quanto attivatrice di emozioni, col risultato di impoverire sempre di più la propria esistenza.

 Come si sviluppa l’analfabetismo emozionale

L'”analfabetismo emozionale” viene attivamente strutturato di solito come conseguenza diretta di una specifica negazione verso certe emozioni, o verso l’intera vita emotiva, da parte della famiglia entro cui l’identità del bambino va strutturandosi.

Se, per esempio, il contesto familiare, in modo sistematico e monotono, non risuona a specifiche emozioni del bambino, egli tenderà a strutturare attivamente e inconsapevolmente una specie di “scissione“, di “macchia nera“, nelle proprie percezioni emotive. Tenderà, cioè, a vivere tutte le emozioni che le sue esperienze comportano, anche le emozioni negate, ma, progressivamente, perderà la capacità di riconoscerle.

Un altro modo in cui un bambino può attivamente strutturare un “analfabetismo emozionale” è, per esempio, quello conseguente al ritrovarsi sistematicamente abbandonato per ore e ore davanti ad un  computer che omogeneizza le esperienze, o le svuota sul nascere con le sue piatte finzioni di interattività (suggerendo artificialmente buonumore con risate fuori campo).

Una volta strutturato, l’ “analfabetismo emozionale” creerà un fertile terreno intrapsichico e relazionale per l’instaurarsi del disturbo di attacchi di panico. Alla prima occasione di vita un po’ più rilevante per il soggetto, tutto è pronto per un acuto misconoscimento di una qualche emozione.

 Gestione della paura e delle emozioni, quattro passi fondamentali

Nei paragrafi precedenti, abbiamo visto che una delle più importanti radici degli attacchi di panico è costituita da una incapacità di gestire le emozioni in generale, e l’ansia e la paura in particolare. Spesso le persone non si accorgono di quando, quanto e come esse si attivano nella gestione delle emozioni. Tendono ad accorgersi soltanto del risultato dell’avvenuta gestione, e a darlo per scontato. Colgono l’obiettivo (raggiunto o non raggiunto), ma non il processo.

Provate a chiedere ad un pilota di formula uno se abbia avuto paura nel compiere le sue imprese, non è raro sentirsi rispondere:”Paura? No. Trasformo la paura in concentrazione“. Ecco un bell’esempio di gestione della paura, efficacemente attuata e misconosciuta ad un tempo. Certo che aveva paura! Altrimenti, che cosa avrebbe potuto “trasformare”? In quelle situazioni di pericolo estremo, la paura veniva da lui gestita, per l’appunto attraverso la attivazione di una maggiore concentrazione.

Ma la paura c’era, e come se c’era: forte almeno altrettanto della concentrazione. Misconosciuta era la paura e misconosciuta era la sua gestione, dunque. Sono esempi di questo tipo che possono confondere i pazienti che soffrono di attacchi di panico, perché vengono da loro presi alla lettera.

Pensano di essere gli unici ad avere paura, e si sentono ulteriormente umiliati dal confronto con chi sembra muoversi come se non sapesse neppure che la paura esiste. Non sanno gestire la paura, e spesso neanche le altre emozioni; ma non sanno nemmeno che la paura, come ogni altra emozione, può essere gestita. E non sanno neppure vedere la gestione della paura messa in atto dagli altri. Quando si cerca di mostrargliela, si fanno tenacemente diffidenti: credono di essere raggirati da un buonismo consolatorio falsificante.

È chiaro che il primo passo nella gestione della paura, come di ogni altra emozione, è riconoscerla. Il secondo passo, poi, è riconoscerne la sensatezza e l’adeguatezza

Il terapeuta deve essere particolarmente accurato nel sostenere e validare le percezioni emotive del paziente, non solo con la propria viva risonanza, ma anche col mostrargli la sensatezza delle sue emozioni, la loro coerenza, la loro correttezza, la loro adeguatezza alla situazione percepita o vissuta.

E se il paziente lamenta che l’emozione attivata è davvero eccessiva, bisogna fargli notare che gli appare eccessiva perché lui vorrebbe che non ci fosse per niente, che fosse “asettico” . Il paziente deve riscoprire e constatare sistematicamente che “l’emozione ha sempre ragione“. Se l’emozione si attiva, ha sempre i suoi bravi motivi. Che magari non comprendono la totalità di ciò che interviene nell’episodio di vita, e che quindi possono essere giustamente integrati con altro, ma che esistono e sono validi. Sempre.

Recentemente, le cronache ci riportano ad una serie di paure: paura di attentati, paura di volare  e per ultima,  nonché più attuale,  la paura dei contagi.  

Ha più ragione chi ha paura, che non chi non ci pensa affatto. 

La strutturazione del processo mentale “emozione paura” e la percezione della paura medesima sono del tutto sani. Guai se non si attivassero.

Quello che, in questi casi, non funziona è la gestione dell’emozione paura. Il paziente, giustamente, si sente trattato da stupido, quando si sente sollecitato a non avere paura. E si dà da solo dello stupido, perché sente come irrefrenabile l’attivarsi della sua paura. Come qualsiasi altra emozione, non è da “combattere” la paura. Mai. Né è mai da smentire. È sempre sensata. È da conoscere, la paura. I suoi portati sono da valutare, da integrare con altri dati che la mente già possiede o che può acquisire. Ed è da gestire, questo sì.

Il terzo passo, nella gestione della paura, come di ogni altra emozione, si svolge ancora sempre sul piano conoscitivo, ed è cercare di integrare ciò che la paura ci segnala con ciò che ci segnalano altre vie di conoscenza: percezione, memoria, pensiero, osservazione, sperimentazione, confronto.

Una volta acquisiti e integrati tutti i dati conoscitivi a disposizione provenienti da ogni fonte, in gioco c’è ancora dell’altro, ed è la necessità, per così dire, di muovere se stesso e le interazioni col mondo. E questo è il quarto passo nella gestione delle emozioni. L’importante in questo caso non è solo considerare l’allarme un elemento importante ma soprattutto evitare di dargli il comando di noi stessi. Una volta segnalato un pericolo, l’”allarme” ha fatto il suo compito e deve rientrare. Quello che diviene fondamentale è come l’individuo la utilizza, avendo, appunto, l’opportunità di trasformarla in una informazione fondamentale per affrontare l’evento ha difronte.

Riferimenti bibliografici

  1. American Psychiatric Association , Criteri diagnostici DSM-5.,Raffaello Cortina Editore, 2019.
  2. Davison, G., C., e Neale, J., Psicologia clinica, (1990), Zanichelli, Bologna.
  3. Gabbard, G, Psichiatria psicodinamica, (2000), Raffaello Cortina Editore, Milano.
  4. Jervis, G., Psicologia dinamica, (2001), Il Mulino, Bologna.
  5. Canil M., “Manifestazioni dell’attacco di panico e diffusione tra la popolazione”
  6. Carnazza G. “Come si interviene e si cura l’attacco di panico”
  7. Tull M.T., Roemer L. (2007), “Emotion Regulation Difficulties Associated with the Experience of Uncued Panic Attacks: Evidence of Experential Avoidance, Emotional Nonacceptance, and Decreased Emotional Clarity”. Behavior Therapy, 38, 4, 378-391 Bibliografia panico 

WONDER PARK, una storia di emozioni sul potere della fantasia

“Mamma ci vediamo un film ?” chiedono i miei figli un sabato un pomeriggio….. Annuisco e immediatamente dopo mi trovo con il televisore acceso e un posticino sul divano accanto a loro . Non mi resta che impugnare il telecomando alla ricerca del film adatto per un momento in famiglia e  dopo una lunga carrellata di titoli, ci imbattiamo in un film animato divertente, con personaggi magicie dai tratti  psicologici: Wonder Park.

Il film racconta la storia di June, una bimba di 10 anni ricca di fantasia e immaginazione. Tutto scorre tranquillo finché la madre non si ammala gravemente, da quel momento June perde ogni interesse e soprattutto la sua capacità di meravigliarsi.

June è una bambina dalla grande immaginazione e con uno straordinario talento per l’ingegneria. Insieme alla madre – e ai suoi animali di peluche – dà vita con la fantasia a un intero parco dei divertimenti: “Meravigliandia”, dove ci sono cascate di fuochi d’artificio, zone a gravità zero tra enormi palloni, giostre con pesci volanti e chi più ne ha più ne metta. Inoltre ,con gli amici del quartiere,  June riesce a mettere in piedi vere e proprie attrazioni improvvisate, che non sempre però vanno come vorrebbe. La sua vita prende una brusca svolta quando sua madre si ammala e deve lasciare la casa, per essere seguita dai dottori di una clinica. A quel punto June decide di distruggere la mappa di Meravigliandia, che le sembra solo un ricordo infantile e doloroso, ma scoprirà che il potere della immaginazione è qualcosa di più reale di quanto credeva.

Il film esalta l’emotività della perdita, è un film proiettivo dall’alto contenuto psicologico.

Perfetto,  per far comprendere il dolore che blocca , spesso la perdita è un dolore troppo forte e blocca la fantasia , la capacità di reagire e di agire, spegne la forza di continuare a vivere. 

La piccola June, alla paura dell’abbandono della figura materna reagisce con il blocco della fantasia e si chiude privandosi della spensieratezza dell’infanzia.

Solo durante l’avventura molto speciale all’interno del parco gioco, progettato insieme alla madre, le permetterà di comprendere quant’è bello godersi i dolori e le gioie della vita ed è solo questa la chiave per far scomparire la forza scura che ci minaccia e si infittisce quando diamo spazio a paura e tristezza.

C’è  tanto da riflettere d’avanti alla tristezza di una bambina depressa, che non ha più voglia di giocare, ma Wonder Park insegna la forza che si può trovare nel ricordo di un tempo felice trascorso con una persona amata. 

Il film tratta bene le tematiche dell’abbandono e riesce, in un linguaggio semplice adatto ai bambini, a far comprendere le difficoltà e le paure di non avere più al nostro fianco le persone amate. 

La metafora è evidente e si risolve in modo semplice, il film non risulta noioso perché ricco di avventure. Non mancano situazioni buffe e adrenaliniche. Quando June arriva a Meravigliandia la trova come abbandonata e assediata da una “forza oscura” rappresentata come un vortice turbolento sul cielo del parco gioco, che ovviamente è il simbolo dell’ansia e della paura per le sorti della madre.

Gli animali che aveva immaginato come custodi del parco, tra cui una cinghiale, un porcospino, un orso blu e soprattutto una scimmia di nome Peanuts, sono assediati da un esercito di pupazzi di pezza, che si comporta come un’armata di automi o meglio di non-morti. Ripetono infatti in modo sinistro una filastrocca come fossero in un film horror e vengono ribattezzati scimpazombie. 

Inoltre, a complicare le cose l’oggetto incantato capace di salvare il parco, ossia il pennarello con cui Peanuts creava le nuove attrazioni, sembra aver perso la propria magia. Il confronto tra June e le creature di fantasia, che aveva abbandonato, la porta a rivalutare il tempo speso con la madre a giocare, e quindi a conservare quei ricordi e trarne coraggio in un momento difficile. 

Una lezione che vale per tutti di fronte a malattie, incidenti e lutti .

Consigliatissimo da proporre ai bimbi e alle loro famiglie e come per ogni situazione vederlo insieme è un buon modo per parlare di tematiche ancora troppo velate nella nostra società.

Grazie ai miei figli per avermi offerto, ancora una volta, un nuovo stimolo e una nuova avventura.

Psicologa Psicoterapeuta

Rosita  Filardi 

Stop ai gruppi WhatsApp dei Genitori?

I Genitori devono essere affidabili, non perfetti.

I figli devo essere felici, non farci felici.

(Madre Teresa)

Chi tra tutti i genitori, che ha almeno un figlio in età scolare, non è finito in un gruppo WhatsApp, dove si va incontro a tutto, compiti, gite, avvisi importanti di tutte le attività scolastiche, o altre varie cose?

E sono tanti i genitori che hanno notato, sulla propria pelle e su quella dei loro figli l’effetto disastroso che provocano nella relazione.

Questo tipo di comunicazione, apparentemente molto immediata, in realtà, serve solo ed esclusivamente al genitore che spera di poter tenere il controllo sul proprio figlio,  incosciente dell’effetto subdolo dell’innovativo strumento che lavora sula relazione figlio-genitore creando un ragazzino deresponsabilizzato rispetto al proprio compito scolastico  e rispetto alla relazione con la propria figura genitoriale.

Proviamo a capirci di più sull’utilizzo di questa innovativa comunicazione.

Il denominatore comune che istituisce la funzione di whatsapp è, nell’immaginario collettivo, l’efficacia e l’immediatezza comunicativa e, ancora prima, l’intenzione di veicolare meglio contenuti, messaggi, informazioni. 

Qui nasce il primo equivoco.

Sono notizie importanti che non vengono date da altri strumenti scolastici? A scuola, da sempre, si utilizzano i diari per le comunicazioni strettamente necessarie e gli avvisi rigorosamente firmati dal dirigente scolastico e controfirmati dai genitori. Questo strumenti sono ancora obbligatori e le informazioni importanti, dunque, vengono già date alle famiglie. Le comunicazioni tramite il diario e gli avvisi rimangono un obbligo per le insegnati e una responsabilità per i bambini.

Che tipo di comunicazione transita nei gruppi? Sono informazioni necessarie?

L’utilizzo dei gruppi virtuali rischia invece di deresponsabilizzarli e di svalutare la funzione stessa dell’avviso/diario, dove i bambini finiscono poi per scrivere in maniera incompleta o errata anche i compiti e le richieste di materiali: nulla di grave se il bambino fosse poi invitato a correggere i propri errori ma spesso sono invece i genitori a correre ai ripari.

Si sa, molti genitori utilizzano il gruppo anche per sopperire alle mancanze dei figli ed evitare così il rimprovero della maestra, alimentando un circuito poco sano per i bambini stessi. 

Pensandoci bene, questo meccanismo, rincorre pensieri di protezione dei figli dai rimproveri. 

Ed è così che i figli devono essere perfetti agli occhi delle insegnanti che lo valutano. Questo comportamento mette in atto un duplice meccanismo malsano: da genitore ho il pieno controllo su mio figlio e a mio figlio creo un’immagine che non gli appartiene e nel quale farà fatica a confermarla negli anni avvenire.

Dimenticando che i bambini hanno bisogno di sbagliare e di comprendere i propri errori anche attraverso i limiti e le assunzioni di responsabilità.Se questa esperienza viene a mancare, non si fa altro che alimentare un processo di crescita parziale, un’autonomia ridotta, la stessa della quale ci si lamenta: mio figlio non è autonomo! Ci devo essere sempre io a pensare a tutto!

Ultimamente si assiste a un fenomeno particolare: alcune scuole consigliano ai genitori un utilizzo responsabile della chat, limitandolo alle comunicazioni strettamente necessarie.

Perché? Che cosa si genera di preoccupante e di dannoso all’interno dei gruppi virtuali?

Spesso si utilizza questo dispositivo con leggerezza, si inseriscono notizie lontane dalle comunicazioni scolastiche, si critica l’insegnante, si esasperano piccole problematiche di ordinaria quotidianità. Ciò alimenta liti, rabbia, rancori e incomprensioni perché i genitori – protetti dalla distanza virtuale, dall’assenza della comunicazione espressiva dei corpi vicini – si permettono di dire ciò che non direbbero in una relazione vis à vis.

Ma proprio l’assenza dei corpi, proprio la mancanza delle interazioni emotive viste ed esperite in una relazione di prossimità, crea un gap comunicativo, una interazione parziale, svuotata di un aspetto umano: l’emozione!

Infatti, ciò che contraddistingue la comunicazione umana autentica, lo scambio tra due persone, è la presenza dei corpi e delle emozioni espresse. Il sentire e il vedere che a un’azione corrisponde una reazione autoregola necessariamente la relazione.

Il valore delle relazioni faccia a faccia rimane insostituibile e è da privilegiare. La presenza fisica limita molte discussioni e equilibra gli scambi comunicativi.

Se sollecitare i genitori ad un uso responsabile dei gruppi virtuali può essere utile ma non sufficiente, uscire dal gruppo non è altrettanto semplice: sappiamo bene che ci si trova, senza neppure essere interpellati, in un gruppo virtuale e spesso ci si sente in dovere di restare.

Allora cosa fare? 

Prima di tutto, conoscere bene il funzionamento del dispositivo digitale, comprenderne le dinamiche sottese e cogliere la parzialità comunicativa può aiutare a regolare le emozioni tra i soggetti e può agevolare la differenziazione tra ciò che è del soggetto e ciò che è generato dal dispositivo, limitando equivoci e incomprensioni.

Secondo, poi, spolverare i vecchi tempi, recuperare quella figura genitoriale che aspettava il rientro da scuola dei propri  figli per aprire e parlare con loro rispetto alle problematiche scolastiche e alle soddisfazioni emotive che un’intera giornata studio può restituire. 

Certo è tutto più complicato e meno immediato: il tempo è più lento, la comunicazione meno diretta, si fa fatica ad arrivare emotivamente al proprio ragazzo ma sedersi accanto a lui e attraversare le sue  parole e i  suoi silenzi è l’essenza della genitorialità  fonte di sviluppo di ragazzi emotivamente sani e di adulti dall’animo sensibile.

LUDOPATIA. UN GIOCO DI SQUADRA PER PREVENIRE ED EDUCARE!

Il ruolo della psicologia e del marketing sociale.

Psicologa Sociale e del Lavoro Dott.ssa Lidia Forastiero

&

  Psicologa Psicoterapeuta Dott.ssa Filardi Rosita

“Gioco d’azzardo:fenomeno in crescita tra giovani di 15 ai 21 anni”

“Videogiochi:rischio di unico nutrimento emotivo dei giovani”

“Gioco d’azzardo:corsi di gruppo per combattere la dipendenza”

“Anche i minori scommettono la paghetta”

Sono solo alcuni dei titoli ed estratti di articoli che popolano sui media e che rappresentano il quadro della situazione attuale.

Ma qual è il ruolo degli psicologi?

La psicologia (e in maniera più approfondita la psicoterapia) offre le teorie e le tecniche necessarie per lavorare sulla dipendenza dal gioco d’azzardo, uscirne e per riconfigurare questo quadro che si sta delineando.

Non dimentichiamoci, però, che la psicologia offre anche gli strumenti che permettono a una comunità di non dipingere questo quadro, educando a giocare d’anticipo in un’ottica di prevenzione, coinvolgendo soprattutto gli adolescenti.

Si tratta di una serie di attività e iniziative volte a informare, educare, promuovere, al fine di prevenire questo fenomeno.

In sintesi si tratta di marketing sociale.

Kotler definisce il marketing sociale come “l’insieme di attività intraprese da un’organizzazione per creare, mantenere, modificare gli atteggiamenti e i comportamenti in vista di valori socialmente condivisi”. 

In pratica il marketing sociale è utile per:

  • la promozione e la tutela della salute (promozione di stili di vita sani, prevenzione di comportamenti a rischio);
  • la promozione di comportamenti sociali (tutela dell’ambiente,  educazione ambientale);
  • la promozione di idee e comportamenti socialmente desiderabili.

Gli obiettivi del marketing sociale non sono connessi alla vendita di un bene o un servizio ma sono collegati a un cambiamento della persona. Diverse possono essere le tipologie di cambiamento interessate:

  • CAMBIAMENTO COMPORTAMENTALE (modificare stili di vita nocivi a favore di abitudini salutari).
  • CAMBIAMENTO DI VALORI (modificare opinioni in relazione a temi di interesse sociale).
  • CAMBIAMENTO COGNITIVO (informare le persone in merito alla frequenza di determinati comportamenti, far conoscere gli aspetti negativi di una condotta per favorire un cambiamento cognitivo).
  • CAMBIAMENTO D’AZIONE  (indurre a compiere un’azione concreta entro un periodo di tempo, favorendo determinate scelte a scapito di altre considerate negative per la salute e il benessere della persona).

Infatti, il focus principale di una campagna di marketing sociale è risolvere un problema collettivo attraverso il cambiamento di comportamenti individuali e/o di gruppo. La psicologia fornisce gli strumenti che accompagnano questo cambiamento in un’ottica non di senso comune, ma di rigore scientifico.

Lo psicologo è consapevole che per lavorare con il cambiamento e in un quadro complesso come può essere quello della dipendenza dal gioco, occorre fare gioco di squadra.

In una comunità è importante a tal proposito fare rete: collaborare con enti e organizzazioni per produrre con successo dei cambiamenti. Questo significa scambiare informazioni vere, concrete per raggiungere un beneficio e un obiettivo comune.

Passando da un piano teorico a un piano pratico, diverse possono essere le attività di prevenzione che possono realizzarsi all’interno di una comunità, coinvolgendo anche la figura degli psicologi:

  • organizzare incontri di carattere informativo e formativo per far conoscere e far sperimentare in un contesto protetto i rischi connessi alle dipendenze da gioco;
  • utilizzare l’arte, i fumetti, le vignette, al fine di comunicare con un sano umorismo, anche all’interno di scuole e ambienti frequentati da giovani;
  • educare con i serious games, per far comprendere la faccia non patologica del gioco.  I serious games, infatti, sono nuovi strumenti di promozione della salute che consentono di favorire l’apprendimento in un’ottica di “learning by doing”;
  • riscoprire la bellezza del territorio, organizzando attività di squadra a carattere esperienziale. Tutto questo per far comprendere che le emozioni, le competenze, le conoscenze si possono sviluppare restando connessi in un mondo reale e disconnettendoci da un mondo esclusivamente virtuale.

Questo è solo un aspetto dell’intervento psicologico: un aspetto che riguarda principalmente la fase di prevenzione ed educazione, ma c’è un altro ampio bagaglio di conoscenze e tecniche che consente di lavorare sulla dipendenza.

A tal proposito cosa ci dice la psicoterapia in merito? Risponde a questa domanda la Dott.ssa Rosita Filardi, Psicologa e Psicoterapeuta.


Il trattamento del gioco d’azzardo patologico può prevedere setting individuali, familiari e di gruppo.

E’ essenziale che all’inizio il terapeuta costruisca un’alleanza con il paziente per rinforzare la motivazione e la compliance al trattamento.

Il terapeuta ha la facoltà di stabilire anche delle indicazioni comportamentali per proteggere il paziente dal contatto con l’esperienza di gioco (controllo del denaro da parte di un familiare, evitamento di luoghi o situazioni di rischio, etc.).

E’ in ogni caso suggerito di co-costruire con il paziente il processo terapeutico, al fine di permettergli di assumere un ruolo attivo e responsabile nella terapia.

Riguardo ai trattamenti farmacologici, non ne esiste alcuno dedicato alla dipendenza da gioco d’azzardo, ma spesso vengono prescritti (i.e., fluvoxamina, paretina ed escitalopram), analogamente a quanto fatto con i pazienti con sintomi ossessivo- compulsivi antagonisti degli oppiacei per ridurre il craving e gli effetti gratificanti e di rinforzo del gioco o stabilizzatori dell’umore ( carbamazepina, valproato e litio).

Gli approcci possono essere vari, tra i più conosciuti c’è l’approccio cognitivo comportamentale, le terapie di gruppo, il sistemico familiare.

L’ approccio cognitivo comportamentale si basa sulla ristrutturazione cognitiva volta ad eliminare quelle credenze irrazionali connesse al gambling, che portano il soggetto a sovrastimare la propria abilità di calcolo delle probabilità, a sottostimare l’esborso economico che porterà ad una vincita risolutiva e, più in generale, a modificare tutte le credenze che mantengono il comportamento del giocatore patologico.

Le terapie di gruppo lavorano sul  gruppo, all’interno del quale il soggetto può esporre la propria dipendenza agli altri partecipanti e condividere il vissuto di sofferenza. I giocatori, caratterizzati spesso da pensiero concreto, scarsa attenzione e bassa capacità di introspezione, acquisirebbero così maggiore sicurezza e abilità nella gestione dei problemi comportamentali e delle proprie relazioni. Nel dettaglio, si punta ad incrementare la motivazione del paziente, agendo sull’aumento della consapevolezza del problema – tramite tecniche derivate dal colloquio motivazionale – e sulla disponibilità al trattamento e al cambiamento, proponendosi, inoltre, come spazio informativo sul fenomeno del gioco d’azzardo. 

L’approccio sistemico relazionale nel gioco d’azzardo patologico segue un orientamento che coinvolge attivamente la famiglia e, in alcuni casi, concepisce il giocatore come paziente designato, considerando il sintomo del gioco patologico come risposta alla situazione famigliare disfunzionale. In quest’ottica, il disturbo da gioco d’azzardo ricoprirebbe la funzione di mantenere l’omeostasi del paziente. Il terapeuta, partendo dalla ricostruzione del “contesto” – inteso nell’accezione di Bateson come il “luogo sociale e relazionale in cui il sintomo del paziente si manifesta, in cui esso prende forma e assume di significato” – ricerca le valenze relazionali del comportamento sintomatico e ne esplora la funzione all’interno degli equilibri del sistema di riferimento. In seguito, sviluppa una mappa della famiglia che lo aiuta a formulare ipotesi sui settori familiari funzionali o disfunzionali.

Dopo gli ADOLESCENTI…… ecco arrivare gli ADULESCENTI

Ne siamo circondati, ma mancava la parola. Ora c’è. Ci ha pensato il sociologo francese Serge Guérin che nel 2013 ha coniato il termine “quincado”.

Nasce dalla contrazione di due parole francesi: quinquagénaire (i cinquantenni) e adolescence (adolescenza) e definisce quegli adulti a cui piace ancora comportarsi, abbigliarsi come i figli di 20/30 anni più giovani. Italianizzando, gli “adulescenti”.

Analizzando fonti storiche e sociali ci è facile dedurre le ragioni di questo nuovo fenomeno.

ll concetto di compito di sviluppo fu elaborato da Robert J. Havighurst nel 1948. Da allora è stato funzionale allo studio dello sviluppo adolescenziale per più di cinquant’anni, rimanendo sempre un concetto di attualità e importanza sia per i teorici dello sviluppo e per i ricercatori , che per gli stessi adolescenti. Nella definizione di Havighurts (1984) si intende per compito di sviluppo un compito che si presenta in un determinato periodo del ciclo di vita dell’individuo, la cui buona risoluzione conduce alla felicità e al successo nell’affrontare i compiti successivi, mentre un fallimento o una cattiva risoluzione conduce all’infelicità, alla disapprovazione da parte della società e a difficoltà nella realizzazione dei compiti evolutivi che si presenteranno in seguito. I compiti evolutivi nascono e si collocano nel mezzo tra bisogni individuali e richieste sociali e possono variare a seconda dello specifico contesto socio-culturale a cui l’individuo appartiene .

Havighurst (1948) individuò, in origine, nove compiti di sviluppo tipici degli adolescenti bianchi di classe media americana degli anni Cinquanta: 

  1. instaurare nuove relazioni mature con coetanei di entrambi i sessi;
  2. acquisire un ruolo sociale femminile o maschile; 
  3. accettare e usare efficacemente il proprio corpo;  
  4. acquisire indipendenza emotiva dai genitori o da altri adulti; 
  5. acquisire indipendenza economica; 
  6. orientarsi verso e prepararsi per un’occupazione professionale; 
  7. prepararsi al matrimonio e alla vita familiare; 
  8. sviluppare competenza civica; 
  9. desiderare ed acquisire un comportamento socialmente responsabile; 
  10. acquisire un sistema di valori e una coscienza etica come guida al proprio comportamento.

Per quanto riguarda l’Italia, si può prendere in considerazione un particolare fenomeno degli ultimi decenni che si presenta soprattutto nella nostra cultura: quello dell’adolescenza allungata o interminabile, consistente nella mancata simultaneità tra l’acquisizione della maturità fisica e psicosociale e l’assunzione del ruolo di adulto autonomo e indipendente dalla famiglia di origine, la quale si ritarda sempre più dai 18 fino ai 30 anni e oltre, facendo sì che molti giovani in questa fascia di età possano essere considerati eterni adolescenti o giovani adulti. Questo ritardo è dovuto a cambiamenti strutturali nella società, nel mercato del lavoro e nella politica che hanno portato all’allungamento del periodo di scolarità e all’aumento dei tassi di disoccupazione, limitando le possibilità di uscita dell’adolescente dal nucleo familiare di origine .

A causa di questo fenomeno, alcuni dei compiti di sviluppo proposti da Havighurst – acquisire indipendenza economica, orientarsi verso e prepararsi per un’occupazione professionale, prepararsi al matrimonio e alla vita familiare – non rientrano più, al giorno d’oggi, nella fase adolescenziale. Ciò può portare a situazioni di confusione e instabilità circa la lo sviluppo dell’identità personale e a un sentimento di insicurezza nei confronti delle proprie capacità e risorse, stimolando gli adolescenti a prolungare l’esplorazione dell’identità e a posticipare le responsabilità e gli impegni dati dall’assunzione di un’identità adulta.

La società odierna può essere inoltre metaforicamente definita narcisistica in quanto attribuisce grande importanza alla visibilità, al denaro e al riconoscimento sociale, all’essere competenti e all’altezza in ogni situazione. Anche il modello educativo degli ultimi decenni si è centrato più sulla promozione di istanze ideali troppo elevate piuttosto che su valori etici e ciò porta gli adolescenti a crearsi identità non autentiche a costo di ben figurare per assecondare le aspettative di altri, nonché a preferire o ricevere più gratificazione da modalità di interazione virtuale, come ad esempio quelle che si possono sperimentare sui social network, dove la vita apparente si riduce ad un’immagine di profilo, una bacheca o ad un tweet. I risultati di uno studio di Vogel et al. (2014) riportano che un maggiore uso e una maggiore attività sui social network è collegato a tratti di autostima più bassi, il che porta gli autori a sottolineare la deteriorante relazione tra l’esposizione ad un alto confronto sociale nell’uso di questi network e il benessere. Eppure al giorno d’oggi è raro che vi siano adolescenti che non fanno uso di queste piattaforme e l’identità virtuale, separata dall’identità corporea del momento presente, è una realtà sicuramente utile quanto pericolosa nel percorso di identificazione adolescenziale.

L’esplorazione prolungata dell’identità è anche favorita dalla cosiddetta tirannia della libertà, ovvero dalla forte pressione, nelle società occidentali in generale, a sviluppare un’identità che sia unica e originale, scegliendo tra un’ampia varietà di alternative; ciò è spesso mortificante, anziché gratificante, per gli adolescenti che non hanno sviluppato senso critico su quale sia la scelta migliore per loro, dacché non vi sono significative linee guida sociali. Questa delicata fase di passaggio del Ciclo di Vita, dall’adolescenza verso l’età adulta, rischia così di essere un’incessante sfida per i giovani, un’eterna competizione in vista di un trofeo irraggiungibile, dove l’accettazione autentica e non giudicante di Sé e dell’Altro non sono considerati come concorrenti in gara.

Chi sono gli adulescenti?

Gli adulescenti, sono gli adulti che fanno fatica ad accettarsi nella continua trasformazione che impone il ciclo vitale. 

Sono gli adulti incapaci di crescere, trasformarsi, evolversi, di avere nuove idee, progetti, obiettivi. Gli adulti che  non portano con sé la capacità di desiderare e di costruire. Sono gli adulti dipendenti, quelli emotivamente turbati e poco sicuri. Quelli con ancora obiettivi da raggiungere, progetti aperti che vorrebbero coronare. 

L’adulescente, ossia l’adulto che crede ancora di essere un ragazzino, che vuole essere giovanile a tutti i costi, lo vediamo dal suo modo di parlare, comportarsi, atteggiarsi, vestirsi. Ha abitudini molto simili a quando aveva vent’anni, frequenta gli stessi locali magari cambiati di nome, hanno lo stesso modo di pensare. L’adulto ancora centrato sul corpo, che si appella alla chirurgia estetica o all’eccesso di sport pur di mantenere un viso più fresco, un corpo più atletico. L’obiettivo è quello di piacere, di essere visto, di avere conferme. Piacere agli altri è un bisogno però tipico degli adolescenti che, proprio perché stanno attraversando un’importante trasformazione a livello corporeo, necessitano di continue conferme alla loro fragile autostima. L’adulescente è un modo di essere oggi molto presente nella nostra società: quando gli adulti vivono questo desiderio di restare sempre giovani da una parte tolgono spazio alla creatività dei ragazzi, dall’altra non sono in grado di trasmettere ai giovani il senso del passaggio, della trasformazione della vita, smettono di essere dei sani punti di riferimento. Non è possibile fermare il tempo, o meglio, lo posso fare solo attraverso una forzatura, un’imposizione, una distorsione di tipo mentale che crea staticità, immobilità, fissità. E come ben sappiamo fissità, stereotipia, ripetizione immutata sono alla base delle malattie psichiche.

Per non incorrere nell’adulescenza e restare bloccati in una tappa del ciclo vitale inesistente  e  disfunzionale alla nostra crescita dobbiamo imparare a :

1.Rispettare i giusti tempi. Ogni età della vita è un gradino senza il quale non si può passare psicologicamente a quello successivo. Bisogna corrispondere alla propria età, o il passaggio da adolescente ad anziano, senza passare dall’adulto sarà drammatico.

2.Conservare la capacità di giocare. Essere adulti non significa non giocare più. Ogni tanto è bello dare spazio al bambino e all’adolescente che sono in noi, ma con la consapevolezza dell’adulto che sa goderseli e poi limitarli.

3.Eliminare i luoghi comuni sull’età. Evitare di identificarsi con una sola fase di sboccio ( ex. l’adolescenza) e sentirsi vivo solo lì. La vita offre tante occasioni di rinascita fino alla fine, in forme nuove e diverse.

“Le rughe della vecchiaia

formano le più belle scritture della vita,

quelle sulle quali i bambini imparano a leggere i loro sogni.”

Marc Levy

Psicologa Psicoterapeuta  Dott.ssa Filardi Rosita 

Bibliografia

Biolcati, R. (2010). La vita online degli adolescenti: Tra sperimentazione e rischio. Psicologia Clinica dello Sviluppo, 14, 2, pp. 267-297.

Buzzi, C., Cavalli, A., De Lillo, A. (2002). Giovani del nuovo secolo. V Indagine sulla condizione giovanile in Italia. Bologna, il Mulino.

Crocetti, E., Fermani, A., Pojaghi, B. & Meeus, W. (2010). Identity Formation in Adolescents from Italian, Mixed, and Migrant Families. Child & Youth Care Forum, 40, 1, pp. 7–23.

Crocetti, E., Rabaglietti, E., & Sica, L. S. (2012). Personal Identity in Italy. In S. J. Schwartz (a cura di). Identity Around the World. New Directions for Child and Adolescent Development, 138, pp. 87–102.

Dogana F. (2002). L’io lieve della post-modernità. Psicologia Contemporanea, 173, pp. 4-10.

Dreher, E., & Dreher, M. (1985). Entwicklungsaufgaben im jugendalter: Bedeutsamkeit und bewältigungskonzepte [Developmental tasks during adolescence: Importance and coping concepts]. In D. Liepmann & A. Stiksrud (a cura di), Entwicklungsaufgaben und bewältigungsprobleme in der adoleszenz. Sozial und entwicklungspsycholgische perspektiven (pp. 56-71). Göttingen, Germany: Hogrefe.

Havighurst, R. J. (1948). Developmental tasks and education. Chicago: University of Chicago Press.

Livi Bacci, M. (2008). Avanti giovani, alla riscossa!. Bologna: Il Mulino.

Pietropolli Charmet, G. (1999). Adolescente e psicologo. La consultazione durante la crisi. Franco Angeli, Milano.

Pietropolli Charmet, G., & Piotti, A. (2009). Uccidersi. Il tentativo di suicidio in adolescenza. Milano: Raffaello Cortina.

Scabini, E. & Cigoli, V. (2000). Il Famigliare. Legami, simboli e transizioni. Milano: Raffaello Cortina.

Scabini, E. & Iafrate, R. (2003). Psicologia del legami familiari. Bologna: Il Mulino.

Schwartz, B. (2000). Self-determination: The tyranny of freedom. American Psychologist, 55, pp. 79–88.

Schleyer-Lindenmann, A. (2006). Developmental task of adolescents of native or foreign origin in France and Germany. Journal of Cross-Cultural Psychology, 37, 1, pp. 85-99.

Vegetti Finzi, S. & Battistin, A. M. (2000). L’età incerta. I nuovi adolescenti. Milano: Mondadori.

Vogel, E. A., Rose, J. P., Roberts, L. R. & Eckles, K (2014). Social Comparison, Social Media, and Self-Esteem. Psychology of Popular Media Culture, 3, 4, pp. 206-222.

Wenxin, Z., Lingling, Z., Lingin, J. & Nurmi, J. E. (2006). Adolescents’ future-oriented goals and concerns. Psychological Science, 29, pp. 274–277.

Babbo Natale e la Psicologia

Fino a che età è normale che un bambino creda a Babbo Natale? È bene incoraggiare la finzione e mettere in piedi ogni anno la messinscena del magico arrivo dei regali, o sarebbe meglio soprassedere? E come gestire la scoperta che il vecchio barbuto di rosso vestito esiste solo nella fantasia? 

Non sono pochi i genitori che si pongono queste domande, mentre preparano i pacchetti richiesti nella famosa lettera indirizzata al Polo Nord. E non sono pochi quelli che entrando nel mio studio chiedono di essere indirizzati su come trattare il mondo magico di Babbo Natale con i propri figli .

Premesso, che in merito esistono delle ricerche sui benefici del credere a Babbo Natale. Va anche detto, negli ultimi decenni la figura di Babbo Natale è ben rappresenta dalla società dei consumi in cui viviamo. In questo contesto societario il periodo natalizio è diventato sempre più il momento maggiormente redditizio per le vendite permettendo così la crescita della figura di Babbo Natale .

Natale è una festa complessa, in cui convivono sentimenti diversi. Accanto a quelli religiosi, vi sono infatti sentimenti familiari, di rassicurazione, speranza e solidarietà. In questa complessità, i bambini hanno un ruolo centrale, poiché rappresentano il cuore degli affetti familiari e della fiducia nel futuro. La società dei consumi ne ha fatto, quindi, i destinatari privilegiati dei doni natalizi, testimonianza di affetto e legame, e Babbo Natale è diventato il rappresentante principale di questa operazione. 

Per le loro caratteristiche psicologiche, i bambini piccoli  – grosso modo fino a sei anni – sono sensibili a questa figura e aderiscono facilmente alla credenza; essi infatti sono contraddistinti da fantasia e da sensibilità a figure immaginarie, che impersonano desideri e sentimenti positivi.

Che fare, allora come genitori

A mio parere la prima cosa dovrebbe essere interrogarsi su qual è il significato che si intende dare a questa festa. Non farsi travolgere dalle abitudini sociali ma sviluppare una maggiore consapevolezza sui propri valori è il primo indispensabile passo. Da questa  riflessione discenderà il peso maggiore o minore che si vorrà dare a Babbo Natale, e il ruolo che si attribuirà non solo a lui ma, più in generale, ai regali natalizi dei bambini.

Pare innanzitutto che non ci sia pericolo di farli diventare dei creduloni. Al contrario di quanto si pensava fino a non molto tempo fa, perfino i bambini molto piccoli sono ben capaci di distinguere tra immaginazione e realtà. 

In effetti, quando il bambino riflette su come il vecchio possa in una sola notte consegnare i regali in tutto il mondo o scendere con il suo pancione dalla stretta cappa del camino, mette in atto lo stesso tipo di immaginazione richiesta per trovare la soluzione di un problema scientifico.

Anche senza pensare di poter incoraggiare future carriere da inventori, la maggior parte degli esperti concorda sul fatto che credere a Babbo Natale, come a molte altre creature fantastiche, sia una fase normale dello sviluppo cognitivo. In fin dei conti, quella su Babbo Natale non è una bugia vera e propria, ma una sorta di esortazione a partecipare a una storia di fantasia.

Per molti genitori, eccessivamente protettivi nei confronti dei figli,  la scoperta della verità potrebbe provocare traumi non da poco e  decidono di non fargli vivere la fantasia di Babbo Natale, privandoli così di un’esperienza unica nel so genere al livello emozionale. Esperienza, che se proviamo a ricordare da adulti è sempre associata al proprio mondo interiore in maniera piacevole. pertanto possiamo considerare il pericolo inestistente.

A questo punto viene da chiedermi: “ quanta fatica fanno i genitori oggi,  nell’avvicinarsi all’emotività dei figli e quanto è più semplice eliminare l’immaginazione e la fantasia adultizzando i propri piccoli e privandoli delle  tappe evolutive importanti?” 

La ricerca in merito ai traumi nel credere a Babbo Natale afferma di aver trovato un solo caso di trauma significativo causato dalla scoperta della non-esistenza di Babbo Natale: a una bambina, il padre aveva a un certo punto semplicemente detto che Babbo Natale non c’era più perché aveva avuto un infarto ed era morto.

Fino a cinque anni, di solito i bambini credono incondizionatamente a Babbo Natale. A sette sono in molti a dubitare, a nove non ci crede quasi più nessuno.

Al contrario di quanto si tende a pensare, la rivelazione non arriva in modo improvviso. Anche quel che ha l’apparenza di un drammatico incidente, per esempio papà o mamma colti nottetempo in flagranza di reato a piazzare i regali sotto l’albero, di solito è solo la conferma di un sospetto precedente. Se il bambino non è ancora arrivato all’età giusta, è possibile che neppure un’evidenza del genere faccia crollare la sua fede.

Pertanto che sia per “dissonanza” (si riconosce l’elastico che regge la barba finta, o le scarpe del papà travestito da Babbo Natale), per i dubbi instillati dai compagni di scuola più grandi che ci sono già arrivati, o perché il mito a un certo punto presenta troppe incoerenze, per ogni bambino a un certo punto viene il momento di fare due più due.

In ogni caso è opportuno trattare questa figura con leggerezza, cioè come una rappresentazione fantastica, circondata da mistero, senza commistioni e confusioni con la realtà. Con questo atteggiamento, il bambino sarà facilitato nel rendersi conto gradualmente di ciò che si tratta, senza provare sentimenti di delusione o inganno.

Poiché l’adesione a questa raffigurazione mitica è frutto di un certo modo di ragionare della mente infantile, sostenuto per fini propri dalla nostra cultura, essa è naturalmente destinata a cadere, per trasformarsi al più in una consuetudine sociale. In ogni caso, mano a mano che il bambino cresce, le sue domande dovranno sempre trovare una risposta sincera: non solo perché il bambino ha sempre diritto alla verità, ma anche perché queste domande stanno a indicare che egli comincia a riflettere in modo critico su questa credenza.

Quando si colgono segnali che l’ora è giunta, meglio secondo non fare “rivelazioni” (a meno di non dover rispondere a domanda diretta) ma lasciare che la verità venga scoperta gradualmente dai bambini stessi … magari smettendo di camuffare la calligrafia sui biglietti lasciati da Babbo Natale, o seminando qualche indizio utile alla loro indagine. Se ci arrivano da soli, sarà per loro un piccolo traguardo, un benvenuto nel mondo dei grandi. E potranno sempre consolarsi dando una mano ad allestire la messa in scena di Babbo Natale per fratelli e sorelle più piccoli. 

“«In verità vi dico: se non cambiate e non diventate come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli.” Matteo 18, 3

…Sereno Natale a tutti !

                                                                           Psicologa Psicoterapeuta

                                                                           Filardi Rosita     

Bibliografia 

Paul L. Harris, O. Albanese, C. Marchetti “L’immaginazione nel bambino” 2008 Raffaello Cortina Editore

Camaioni, Di Blasio “Psicologia dello sviluppo” 2007, ed. il Mulino 

Rivista,  Psicologia Contemporanea

Mensile, Focus 2016

Alfio e Michele Maggiolini “La vera storia di Babbo Natale” 2011, Raffaello Cortina Editore

Psicoterapia Familiare

Che cos’è la Psicoterapia Familiare?

La psicoterapia familiare assolve al compito di far funzionare le risorse  della famiglia, mediante incontri con tutta la famiglia, di coppia o individuali.  Uno degli obiettivi di ogni terapia è ridurre e risolvere lo stato di sofferenza del nucleo familiare.

Tali interventi mirano alla soluzione delle difficoltà di apprendimento scolastico, dello sviluppo psicofisico, della socializzazione dei figli e alla gestione delle problematiche  di coppia o individuali degli adulti.

La Psicoterapia familiare si interessa degli intricati rapporti, dei sistemi, delle alleanze che ci sono nella famiglia, considerando le dinamiche familiari in relazione a  vaste aree psicologiche fra cui ricordiamo: la disabilità fisica, cognitiva e psichiatrica, l’adolescenza, il rapporto itergenerazionale,  la psicosomatica e le relazioni sociali.

Qual è il ruolo del terapeuta?

Per descrivere il ruolo del terapeuta mi piace usare la metafora della lente di Minuchin: un terapeuta ad orientamento familiare si può paragonare ad un tecnico con lenti a “zoom”, che può permettersi di ingrandire un particolare ma può anche osservare un campo più ampio. Il terapeuta si associa alla famiglia, usando se stesso, con lo scopo di modificare la parte dell’organizzazione disfunzionale; in tal modo fa esperire ai membri della famiglia posizioni nuove che mettono in gioco diverse emozioni. Il ruolo di terapeuta deve essere attivo, direttivo e prescrittivo. Gli interventi sono fondati sull’aspettativa di un effetto pragmatico della propria comunicazione (verbale o non verbale), basata su una determinata ipotesi formulata sulle modalità di funzionamento del sistema familiare. La terapia familiare  tende a mettere i terapeuti in grado di trovare nuove soluzioni ai vari problemi che si trovano di fronte nella loro professione. L’obiettivo principale è creare nuove connessioni alternative tra azioni e convinzioni all’interno dell’interazione familiare, affinché possano nascere quei cambiamenti sostanziali che generano nuove modalità di relazionare. Il terapeuta cerca così da un lato di seguire da vicino le retroazioni restando collegato alla famiglia, dall’altro però la sfiderà con domande, prescrizioni e compiti che possano corrompere più o meno apertamente il sistema, portandolo a nuovi equilibri.

Perché la famiglia?

La famiglia  è composta da più persone legate tra loro da vincoli biologici, affettivi, relazionali, in cui ognuno interagisce con l’altro creando un proprio modo di essere. Il nucleo familiare è il fondamento di base di ogni organizzazione sociale, che in continuo movimento con la storia e la società delinea tratti  dei soggetti che vi appartengono. E’ la matrice dell’identità, oltre che il luogo della trasmissione culturale di valori, tradizioni, motivazioni, durante tutto il ciclo vitale dell’individuo. Pertanto, è sottoposta a continui cambiamenti interni ed esterni, che deve affrontare pur mantenendo la sua continuità e accomodandosi alla società in trasformazione. Il sistema famiglia sostiene i suoi membri, che affrontano, quotidianamente, situazioni nuove e spesso difficili e quando la famiglia non riesce ad attuare il cambiamento e si blocca ad una tappa del ciclo vitale, interrompendone l’evoluzione, possono nascere problemi.    (Minuchin, 1976)

Bibliografia:

Minuchin S., “ Famiglie e terapie della famiglia”, Astrolabio, Roma, 1976.