Coronavirus, spesso dopo la difficoltà di accettare la diagnosi molte persone devono affrontare l’emarginazione sociale.

Psicologa Psicoterapeuta Rosita Filardi 

Da un pò di tempo mi chiedo cosa emotivamente possa vivere un individuo positivo al coronavirus; quali possono essere le conseguenze psicologiche e sociali individuali  e  familiari.

Ancor più,  mi chiedo cosa accade se tutto questo avviene in piccoli territori: paesini o piccole province,  dove ci si conosce e dove facilmente si giudica l’altro. 

Di sicuro successivamente al referto, che accerta la diagnosi di positività al covid 19,  la vita non procede più come prima e tra i tanti cambiamenti personali quello più difficile da affrontare è sociale. 

Considerando che le emozioni giocano un ruolo fondamentale nella nostra vita, in questo caso, si provano due emozioni primarie: la paura e la rabbia. La paura in quanto la situazione viene vissuta come rischiosa e allarmante per sé e per gli altri e porta all’immediato pensiero di perdere tutto ciò che si è costruito e tutti gli affetti più cari, incrementando il senso di colpa.

La rabbia di non poter gestire e controllare la malattia, che nel frattempo lavora dentro di noi.

Inoltre, poiché gli individui non sono fatti per reggere situazioni di allerta o tensione troppo a lungo, lo stress eccessivo il più delle volte conduce all’ansia generalizzata e in casi più estremi agli attacchi di panico.

Non va escluso il peso del il giudizio sui presunti “untori” che non serve a nulla se non a creare odio tra le persone, incrementando lo stress di chi vive attimi difficili.

Ed ecco che come in altre epidemie del passato, si può verificare una ingiustificata emarginazione. 

Il fenomeno  è molto noto a noi psicologi, che spesso  ci attiviamo per un supporto on line al  paziente e alla famiglia. 

Proviamo ora  a capire,  cosa muove l’atteggiamento negativo che porta a stigmatizzare i soggetti positivi al virus e ad evidenziare i condizionamenti  che l’ombra oscura del Covid costringe a vivere. 

Non c’è niente di razionale in questo atteggiamento che diviene una sorta di “lotta malata” alla sopravvivenza a scapito del benessere psicologico degli altri.

Spesso la situazione è psicologicamente pesante,  traducendosi  in un percorso a ostacoli per tornare alla vita normale.

L’ Oms e l’Istituto superiore di sanità,  hanno fatto circolare le regole per contenere il fenomeno,  che potrebbe creare parecchi problemi a chi vive e a chi è uscito da un’esperienza difficile e che ora rischia di dover subire anche le paure irrazionali di colleghi e vicini di casa. 

Questi timori sono del tutto irrazionali, da sempre in situazioni simili si attivano timori ancestrali, di protezione di sé e del proprio nucleo ristretto. Si tratta di processi psicosociali atavici, come la ricerca del capro espiatorio e la caccia all’untore, che si mantengono anche in contesti contemporanei. Le condizioni maggiormente a rischio di stigmatizzazione sono proprio le malattie contagiose (soprattutto se la colpa dell’infezione può essere ricondotta a un comportamento del singolo individuo) ma non solo. Nel caso della pandemia attuale, la fonte primaria di stigma è rappresentata dall’elevato grado di contagiosità e dal numero di morti legate a questo virus. 

A rendere le cose più complicate c’è la confusione che molti fanno con i cosiddetti «asintomatici» (inconsapevoli di avere la malattia perché senza sintomi, che sono davvero potenzialmente contagiosi ma che non è facile identificare) e le persone in cui la malattia è stata conclamata, e di cui però sono esauriti gli effetti contagiosi. In una situazione di ansia e paura è facile che scattino meccanismi di protezione che portano all’emarginazione. Un atteggiamento che è stato notato anche negli stessi guariti che talvolta arrivano a chiudersi in una sorta di auto isolamento, nonostante abbiano avuto rassicurazioni di non poter più infettare gli altri. 

Che lo stigma nei confronti degli ammalati si alimenti di aspetti poco scientifici lo dimostrano anche altre grandi pandemie della nostra epoca come l’Aids e, in tempi meno recenti, la tubercolosi. 

Proprio la paura dell’ignoto alimenta la tendenza a ragionare per stereotipi e pregiudizi, meccanismi alla base della formazione di uno stigma sociale. 

Aspetto grave da considerare è che il timore di subire una discriminazione sociale porti le persone a negare di essere stati infettato o persino a ignorare i primi sintomi della malattia e quindi non farsi curare. Questa tendenza, documentata anche da studi empirici relativi alla diffusione di altri virus, è indubbiamente pericolosa sia per il benessere individuale sia per la salute pubblica, dal momento che potrebbe ostacolare in modo significativo l’identificazione dei soggetti infetti o a rischio e, di conseguenza, la corretta gestione del contagio. 

Come gestire queste situazioni?

Innanzi tutto è opportuno evitare allarmismi sterili. Preoccuparsi attivando comportamenti irrazionali e controproducenti non serve a nulla. 

Essere resilienti in questo caso e far sentire la propria presenza “positiva” a chi vive periodi di difficoltà fisica-emotiva e sociale causa coronavirus è il miglior modo per evitare il senso di isolamento e solitudine.

La speranza è che le cose cambino:  che ci si apra alla possibilità del cambiamento  e  di  conoscenza, come  vie di esclusione del pregiudizio e delle emarginazioni .

Che si pensi in modo meno egoistico favorendo lo sviluppo dell’empatia così  da essere capaci ed  offrire parole di conforto che sollevano i cuori di chi sta vivendo  tutte le difficoltà che la malattia porta con sé.

Riflessioni sull’approccio terapeutico nella psicoterapia familiare

Due righe per restituire una visione personale sull’approccio della terapia familiare. Con l’intento di non essere ripetitiva, cercherò di offrire una prospettiva globale.
E’ evidente, alla luce di quanto detto, che la famiglia è un sistema, ossia un’entità che possiede caratteristiche, regole e norme proprie. L’identità dell’individuo e i  vissuti personali dello stesso, sono la somma della trama relazionale in cui è immerso. Sistema famiglia e individuo sono due facce necessariamente complementari di una medesima realtà, tali che e l’una rinvia all’altra e non può essere pienamente compresa l’una senza, necessariamente,  affrontare l’altra.
L’individuo con la soggettività delle sue reazioni psicoemozionali, la famiglia con le sue dinamiche interattive e l’ambiente sociale con le influenze culturali che ne derivano, sono in stretta correlazione tra loro e, pur rimanendo livelli assolutamente distinti, rivelano una imprescindibile complementarietà.  Al punto, che ogni membro del sistema esercita una serie di effetti, di influenze, sugli altri membri e se si manifesta un  sintomo in uno dei membri, quel sintomo è parte del  sistema,  in quanto disfunzionalità di quella famiglia.                                   La terapia familiare si può, metaforicamente, considerare come un viaggio con la famiglia, dove lo  Psicoterapeuta viene scelto come accompagnatore. Nella sua valigia autorevolezza, capacità di ascolto, competenza, empatia, disponibilità, direttività e chiarezza sono funzionali al percorso che compirà con la famiglia.  I vissuti interni dei membri, le emozioni, le relazioni e le problematiche sono le mete che dovranno esplorare e conoscere. Lo scopo finale di questo viaggio è quella di attivare un cambiamento funzionale alla crescita della famiglia.

La Famiglia Anoressica

L’ identità proviene dalla nostra famiglia. Ed è in questo nucleo di base che il bambino inizia ad esperire le prime realtà. La bambina anoressica cresce in una famiglia che agisce su modelli altamente invischiati e una bambina che cresce in tale sistema familiare impara a subordinare il proprio sé agli altri, dove l’approvazione si sostituisce alla ricompensa.

Secondo gli studi fatti da Minuchin e coll., una bambina che si  è relazionata con modelli invischiati può diventare anoressica, specie se nella famiglia sono presenti anche altri processi.

La protettività è una delle caratteristiche tipiche delle famiglia anoressica. Non a caso la bambina anoressica cresce protetta dai genitori, che si focalizzano solo sul suo benessere. I genitori ipervigilanti e attenti ai bisogni psicofisiologici della bambina, mostrano così tutte le loro preoccupazioni che investono la piccola.

Nel momento che la bambina sperimenta, che quello che fa è dominio di chi le sta attorno,  sviluppa un perfezionismo ossessivo e un’attenzione particolare su sé e sui segnali delle altre persone. Così la sua preoccupazione diventa l’approvazione dei genitori.

La bambina è socializzata ad agire come si aspetta la famiglia ed è particolarmente attenta a non mettere in imbarazzo i genitori. L’autonomia è limitata all’intrusività e all’iperprotettività della famiglia, in quanto ampie aree del funzionamento corporeo restano sotto controllo altrui. E la bambina non riesce a sviluppare le abilità necessarie per potersi relazionare con persone della sua stessa età, di conseguenza diviene abile nelle relazioni con gli adulti. Il suo coinvolgimento nella famiglia non le permette di aprirsi all’ambito  extrafamiliare.

Inoltre, la bambina anoressica che si affaccia all’adolescenza  entra in conflitto e il suo desiderio di entrare in contatto con il gruppo dei pari è ostacolato dall’orientamento verso la famiglia.

Così, invece di riuscire a svincolarsi dalla sua famiglia, come fanno i coetanei,  gli rivolge maggiore attenzione pensando di poterli aiutare a cambiare. I genitori, a loro volta, rafforzano i confini e fanno in  modo che la bambina sia ipercoinvolta nella famiglia.

Nelle famiglie anoressiche i confini sono forti  e ben definiti, questo permette ai membri di rafforzare il loro legame e invischiarsi sempre più.

Un’altra caratteristica delle famiglie anoressiche è la focalizzazione sulle funzioni corporee. Vari membri della famiglia lamentano disturbi fisici e queste lamentele possono riferirsi a malattie reali o semplicemente rappresentare una sensibilità generale ai normali processi fisiologici. Spesso, in queste famiglie emergono preoccupazioni particolari su questioni come il mangiare.

Nel caso in cui queste famiglie subiscono uno squilibrio, tutti membri si compattano per proteggere il sistema, è fanno ciò per reprimere quei membri  il cui bisogno cambiamento minaccia lo status quo.

Sfidare al cambiamento Quando una famiglia anoressica entra in terapia, i famigliari della paziente si presentano come accompagnatori. Secondo loro c’è qualcosa che non va nel “paziente designato”, qualcosa che sfugge al loro controllo e che mette in crisi l’intera famiglia. Il terapeuta familiare sa che quell’individuo sintomatico è parte si un sistema psicosomatico.  Infatti,  lo stesso sistema inserisce il sintomo nella sua rete comunicazionale utilizzandolo per il proprio funzionamento e per la propria comunicazione.

Il sintomo può essere insorto in un individuo sia a causa delle sue particolari condizioni di vita sia come tentativo di risolvere la disfunzione esistente nella famiglia, e la malattia può sparire solo a prezzo di un cambiamento intervenuto nel “gioco familiare” che possa portare la famiglia stessa a funzionare indipendentemente dal disturbo.

Le fasi iniziali di una terapia con una anoressica devono focalizzarsi sulla sindrome che presenta una minaccia di morte[i] e muoversi verso lo scopo primario che è quello di abbandonare il sintomo. Successivamente il terapeuta deve andare otre il sintomo, decentrando l’attenzione dal paziente designato alla famiglia. In questo modo la paziente anoressica  è libera di sperimentarsi solo come parte di un sistema disfunzionale. Ogni terapeuta, cerca poi di sfidare le cinque modalità transazionali che sono direttamente collegate alla comparsa ed al mantenimento di un quadro sintomatico: invischiamento, iperprotettività, rigidità, evitamento del conflitto e deviazione del conflitto. Nessuna di queste caratteristiche sembra sufficiente a sostenere i sintomi psicosomatici da sola, ma l’insieme di esse è ritenuto tipico di un assetto familiare che incoraggia la somatizzazione. Le strategie terapeutiche saranno quindi indirizzate contro queste modalità di transazione. Il terapeuta ha il compito di riformulare il sistema familiare, ed è attivamente coinvolto come agente del rinnovamento mediante l’uso di tecniche atte a provocare crisi e tali da scuotere il sistema e costringerlo a cercare un nuovo equilibrio strutturale, più salutare.

La sfida all’invischiamento consiste nel sostenere lo spazio vitale individuale, sostenere la definizione del sottosistema,, e sostenere l’organizzazione gerarchica familiare.  In genere l’invischiamento viene proclamata come orgoglio delle famiglie anoressiche, in quanto esse si vedono leali, protettive, sensibili e responsabili, cosa che in effetti non sono. Tutte le operazioni che costituiscono una sfida all’invischiamento cercano di aumentare l’autonomia. Il terapeuta sottolinea la necessità di ciascun membro della famiglia di avere uno spazio psicologico. Spesso il terapeuta incoraggia ciascun membro di parlare e ad esprimere un sua idea, rafforzando così la differenzazione. Blocca poi chi decide di parlare come portavoce della famiglia o chi decide di sostenere uno dei membri della famiglia che esprime un’emozione. Offre, comunque la possibilità di poter manifestare il suo stato d’animo e indaga sulle ragioni del pianto.

Inoltre, è importante che il terapeuta differenzi il sottosistemi fratelli ed eviti che altri membri della famiglia si intromettino nel sottosistema dei fratelli. Ma non solo, il compito del terapeuta con queste famiglie è anche di chiarire l’organizzazione gerarchica, definendole aree di responsabilità dei genitori e quelle di ove genitori e figli possono confrontarsi.

Comunque, si può dire che generalmente tutte le operazioni terapeutiche che sfidano l’invischiamento sono operazioni che sostengono l’individuazione.

Gran parte delle operazioni utili per sfidare l’invischiamento sono valide anche sfidare nelle l’iperprotettività. Le famiglie iperprotettive si distinguono per l’intrusività dei membri. Come per l’invischiamento ci sono operazioni che vanno ripetute per rendere cosciente la famiglia. E’ importante, quindi che il terapeuta dia autonomia e autoconsapevolezza a ciascun membro della famiglia, favorendo l’individualità di ciascuno. Talvolta, il terapeuta può notare che la ragazza anoressica fa le veci della madre, ad esempio occupandosi della casa o della preparazione del pranzo, in questo caso la famiglia può essere sfidata ridefinendo i ruoli e i confini di questa famiglia. Anche in questo caso è molto importante decentrare l’attenzione dalla ragazza anoressica ai genitori, in questo modo si evita che la ragazza si consideri la parte “malata”dalla famiglia e si esperisca in modo autonomo.

Spesso le famiglie anoressiche tendono ad evitare il conflitto e apparentemente questo viene confuso con l’armonia della famiglia.  In realtà il fatto che a famiglia non appaia in conflitto, agli occhi del terapeuta, è fuorviante per il terapeuta stesso, che può essere tratto in inganno.

In genere, il terapeuta si oppone all’evitamento del conflitto creando dei confini,anche attraverso la manipolazione dello spazio, che aiutino i membri a discutere e a risolversi sul tema di scontro. Ad esempio, se due membri mostrano un’opinione diversa, gli si chiede di sedersi vicino e di discutere sulla diversa opinione. Il terapeuta in questi casi può essere facilmente triangolato, specie se uno dei membri vuole evitare il conflitto e cercare un’alleanza con il terapeuta stesso. Nel caso in cui  qualche altro componente della famiglia entra nella discussione viene immediatamente bloccato.

Oltre a sostenere il conflitto fra sottosistemi, il terapeuta facilita lo sviluppo della risoluzione del conflitto fra genitori e paziente anoressica. E lo fa ancora una volta definendo i ruoli in famiglia nel rispetto dell’autonomia e dell’età dei membri e della ragazza anoressica.

Sfidare la rigidità della famiglia anoressica non è cosa facile per il terapeuta, che si trova di fronte una “rigidità” “flessibile”. Seppure i due termini sembrano non poter coesistere nello stesso contesto è l’unico modo per poter spiegare la rigidità di una famiglia, che sembra prendere forma secondo l’impostazione del terapeuta  ma, che dopo poco si ricostruisce nello stesso identico modo di prima. Pertanto il terapeuta deve rendersi conto, che con queste famiglie i messaggi vengono ben attutiti e diviene molto efficace la messa in atto dei problemi e la creazione delle prescrizioni concrete, chiaramente differenziate.

La sfida alla deviazione del conflitto è la strategia terapeutica più difficile da discutere, poiché richiede specifiche capacità del terapeuta. Nel proteggere il membro triangolato della famiglia, il terapeuta rischia di associarsi ad esso troppo  strettamente. Ai triangolatori ci si può opporre, ma devono essere anche sostenuti. Allora, il terapeuta deve saper lavorare su entrambi le parti  associarsi simultaneamente con i membri della famiglia in modo tale che si sentino rispettati.

In questi casi è importante che il terapeuta si presenta con autorevolezza e competenza, capacità di ascolto, empatia e direttività.

Bibliografia                                                                                                                       CANESTRERI R., GODINO A., “Trattato di psicologia”, CLUEB, Bologna, 2002.             DSM-IV, “Manuale Diagnostico e statistico dei disturbi mentali”, Masson,2004.

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[i] Il termine morte viene usato per indicare un processo, una modalità del divenire, un modo di trasformarsi continuo dell’essere, che chiamiamo più propriamente il “morire”. La continua trasformazione dell’essere è costituita da diversi passaggi da uno stato ad un altro che sono segnati da cambiamenti. Ogni cambiamento implica la privazione o la perdita di uno stato precedente e costituisce la prima esperienza, il primo approccio con la morte. Infatti nello scorrere del tempo nessuno e nessuna cosa rimane simile a se stessa. La morte non esiste come entità, ma solo come concetto: è in verità un’astrazione. L’idea di non essere più quello di prima vuol dire aver fatto morire qualcosa di noi, di brutto o di bello che sia. Questa riflessione e le precedenti considerazioni, che rispecchiano la realtà della nostra condizione umana, possono portare ad almeno due tipi di atteggiamenti o attitudini, in Occidente, nei confronti della morte e del morire: una partecipazione attenta alla vita, ma minata dalla probabilità sempre attuale dell’interruzione della nostra esistenza come progetto, oppure un atteggiamento cinico e distaccato che – come nella classica visione filosofica dello scetticismo – rifiuta obbiettivi giocati su una prospettiva che vede al suo interno un fine non esattamente prevedibile. Ambedue le posizioni riflettono un sentimento di smarrimento, di incapacità e d’impossibilità, a volte, ad affrontare il pensiero della morte. Da quando gli uomini hanno avvertito paura ed angoscia per l’imprevedibilità e la necessità della morte, hanno cercato soluzioni mitiche al senso di sofferenza e consolazione all’inevitabilità della propria fine. L’elaborazione dell’idea di morte e del morire in Occidente è stata influenzata dalla difficoltà di affrontare i sentimenti cupi che essa genera; paura ed imprevedibilità della morte generano negli individui e negli aggregati sociali atteggiamenti atti ad escogitare sistemi per sfuggire alla minaccia della propria fine o alla disgregazione del gruppo di appartenenza. Questi sistemi – il lutto e le dinamiche del cordoglio – hanno conosciuto nel corso della storia (soprattutto nel periodo che segna la transizione tra la società feudale-contadina e l’affermazione dell’individualismo della società urbano-industriale) trasformazioni determinanti per lo sviluppo del concetto di morte. Oltre alla paura ed al senso d’angoscia, hanno influito in modo importante sull’idea di morte in Occidente l’evoluzione dei sistemi di apprendimento e lo sviluppo del pensiero scientifico. Dopo un lungo periodo durante il quale ha prevalso una visione “naturale” della morte (o della morte naturale), l’idea della morte ha dovuto confrontarsi con il pensiero illuminista e la filosofia positivista che chiedevano argomenti più razionali a fronte dei cambiamenti che accompagnano l’invecchiamento, la malattia e le alterazioni irreversibili della materia vivente. Alla trasformazione del concetto di morte ha contribuito un graduale processo di dissacrazione, che da un lato, nel favorire l’affermazione degli aspetti biologici della vita e della sua fine -per esempio rilevando le cause di morte sul cadavere -è stato motivo di rassicurazione, ma che ha riproposto antiche e irrisolte questioni, sollevando nuovi interrogativi sul significato dell’esistenza e dell’aldilà e provocando un inquietante vuoto di riferimenti. Di fronte all’affermarsi di immagini più razionali e di aspetti più concreti della morte, così come di fronte al contemporaneo svanire di miti e riti, all’assenza di codici e tradizioni, l’Occidente si è trovato privo dei riferimenti culturali che servivano se non a spiegare, almeno ad esorcizzare ed accettare la morte e ha trovato rifugio in meccanismi di negazione, spostamento e rimozione, considerati tra le cause più frequenti di manifestazioni nevrotiche e di personalità conflittuali. Così accanto alla ricerca inquieta di risposte rassicuranti sulla possibilità di spostare i confini tra vita e morte, riposa ancora la grande incertezza sulla definizione di morte e, come tentativo di allontanare la minaccia rappresentata dalla certezza del limite, si assiste all’imporsi di filosofie “metropolitane”, nella quale gli elementi di riflessione non sono più la paura della morte, intesa come “la fine”, e del morire, visto come condizione di angoscia esistenziale, ma il timore di non esserci più alle cose del mondo: la paura di “non vivere”, come ansia della perdita di oggetti di culto e di status. Il progetto di sopravvivenza si inscrive oggi in una dimensione prevalentemente orizzontale. In questo scenario ha acquistato rilevanza una nuova immagine della morte, caratterizzata dall’iperrealismo delle rappresentazioni prodotte dall’iconografia e dalla medialità contemporanea. Per ulteriori informazioni C.f.r. Kübler-Ross E.;“La morte e il morire”, Cittadella Editrice, Assisi,2005

Disturbi dell’alimentazione

Il tema sui disturbi del comportamento alimentare è assai vasto e articolato, pertanto in questa circostanza percorreremo una panoramica generale sui comportamenti alimentari e i criteri diagnostici, per approfondire, in modo più accurato, le relazioni familiari.

L’Anoressia Nervosa e la Bulimia Nervosa sono disturbi della nostra epoca, caratterizzati dalla presenza di grossolane alterazioni del comportamento alimentare.  Distintivo dell’Anoressia Nervosa è il rifiuto di mantenere il peso corporeo al di sopra del peso minimo normale. Mentre, la Bulimia Nervosa è caratterizzata da frequenti episodi di “abbuffate” seguiti dall’attuazione di mezzi inadatti per controllare il peso, come il vomito autoindotto, l’uso di diuretici e lassativi; il digiuno o l’attività fisica praticata in maniera eccessiva.

Una caratteristica comune ad entrambi i disturbi del comportamento alimentare è la presenza di una alterata percezione del peso e della propria immagine corporea[i].

Dati statistici dimostrano, che dagli anni ’60 a oggi l’incidenza dell’anoressia nervosa è raddoppiata, mentre la prevalenza della bulimia nervosa, riscontrate tra ragazze adolescenti e giovani adulte si aggira attorno all’un per cento. Questi dati, avvalorano la tesi che i disturbi dell’alimentazione possono essere una soluzione, sempre più comune, per una varietà di fattori stressanti intrapsichici, familiari e ambientali[ii]. Minuchin e collaboratori hanno descritto uno schema di invischiamento nelle famiglie dei pazienti anoressici, caratterizzato da una generale assenza di confini generazionali e personali. Ciascun membro della famiglia è ipercoinvolto nella vita di tutti gli altri, al punto che nessuno esperisce un senso di identità separata al di là della matrice familiare. Anche la Selvini Palazzoli ha evidenziato che le pazienti con anoressia nervosa non erano in grado di separarsi psicologicamente dalla madre, con il risultato di non aver mai acquisito uno stabile senso del proprio corpo. Inoltre, si è notato che i genitori di una paziente anoressica tendono a  proiettare la loro ansia nella figlia invece di contenerla[iii].

Anoressia

Secondo il DSM IV, il manuale Diagnostico e Statistico per i disturbi mentali[iv], riconosciuto a livello internazionale per la classificazione delle malattie mentali, si possono individuare dei criteri comuni essenziali per poter asserire che si  tratta di Anoressia Nervosa, fermo restando che si può dire che esistono tante forme di anoressia quante sono le pazienti.

Ciò che sul piano diagnostico caratterizza l’Anoressia Nervosa è una ricerca fanatica della magrezza correlata alla paura di ingrassare. Spesso chi soffre di Anoressia Nervosa vive il proprio peso in modo alterato e così  anche la forma del proprio corpo, per cui l’umore e l’autostima dipendono direttamente dal peso corporeo.

Come si può comprendere, ogni azione, ogni pensiero di una ragazza che soffre di questo disturbo, sono dovuti al contrasto  tra impulso fisiologico di aumentare il peso e il desiderio di esser magre o, per meglio dire, sottopeso. Lo scontro tra un’esigenza naturale e il desiderio di controllarla non è semplice, e lo sforzo necessario per vincere questa battaglia   quotidiana è così imponente che non lascia assolutamente tempo per dedicarsi ad altre cose. Tutto quello che circonda la ragazza in questi momenti appare passato in secondo piano, come se assumesse un valore secondario e irrilevante. Non è facile entrare in questo mondo, non soffermarsi all’apparenza, riuscire ad osservarle da dentro. Infatti, un esame superficiale può indurre gravi errori di interpretazione, inducendo  a banalizzare il problema e a iniziare con le ragazze una sterile guerra sul peso, sul corpo, sul cibo, che può provocare solo disperazione e senso di impotenza.  Così se vogliamo comprendere l’anoressia dobbiamo intendere la sua manifestazione esteriore come una risposta ad un profondo disagio interno.

Bulimia

La Bulimia Nervosa è un disturbo alimentare caratterizzato da episodi di “abbuffate” seguiti generalmente da comportamenti compensatori.  Le abbuffate consistono tipicamente nel mangiare grandi quantità di cibo. Il comportamento compensatorio utilizzato più frequentemente è il vomito autoindotto, ma possono esservi abusati anche lassativi e diuretici, talvolta associando a tutto ciò una eccessiva attività fisica con lo scopo di “neutralizzare” l’abbuffata precedentemente fatta. In questo comportamento è insito un tentativo  di alleviare il senso di colpa.

Il comportamento compensatorio è più distruttivo dell’ abbuffata in sé, per due ragioni: in primo luogo espongono il soggetto a un maggior numero di pericoli fisici e medici; in secondo luogo, tale comportamento aiuta a legittimare l’abbuffata; cioè  tende a vanificare l’abbuffata e aumenta la probabilità che questa in futuro venga ripetuta e acquisita come parte della propria condotta alimentare. La gamma dei comportamenti può variare di molto da persona a persona.  Mentre alcune delle pazienti si abbuffano e ricorrono  a questi comportamenti di compenso parecchie volte, altre lo fanno solo saltuariamente.  Varia anche ciò che si intende per abbuffata. Per una persona l’abbuffata potrebbe equivalere a cinquemila calorie di cibi dolci, mentre per un’altra potrebbe voler dire mangiare qualsiasi cibo che non sia ad alto contenuto calorico (ad esempio solo frutta). Allo stesso modo anche il comportamento compensatorio può presentarsi sotto parecchie forme, sebbene la maggior parte delle persone bulimiche si auto induca il vomito.

Le somiglianze tra la bulimia e l’anoressia comprendono la preoccupazione per la dieta, il cibo, il peso e la taglia; il disagio quando si è a tavola con gli altri e la ricerca dell’approvazione.  Inoltre, è possibile che molte bulimiche in precedenza erano state anoressiche, e molte di quelle che non lo sono state desiderano poterlo essere, cioè riuscire a non mangiare.

Anche con le ragazze che soffrono di bulimia non è facile entrare nel loro mondo, non soffermarsi all’apparenza e riuscire ad osservarle da dentro.  Così, ancora una volta,  se vogliamo comprendere il loro disagio dobbiamo intendere la manifestazione esteriore come una risposta ad un profondo malessere interno.

Bibliografia                                                                                                                       CANESTRERI R., GODINO A., “Trattato di psicologia”, CLUEB, Bologna, 2002.             DSM-IV, “Manuale Diagnostico e statistico dei disturbi mentali”, Masson,2004.

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[i] Cfr. DSM-IV, “Manuale Diagnostico e statistico dei disturbi mentali”, Masson,2004.

[ii] Cfr. Glen O. Gabbard, “Psichiatria e psicodinamica”,Raffaello Cortina Editore, Milano, 2002

[iii] Cfr. Glen O. Gabbard, “Psichiatria e psicodinamica”,Raffaello Cortina Editore, Milano, 2002

[iv] Per conoscere meglio i criteri diagnostici  sui disturbi del comportamento alimentari Cfr. DSM-IV, “Manuale Diagnostico e statistico dei disturbi mentali”, Masson,2004.

Il Modello Psicosomatico

Prima di entrare in merito del modello psicosomatico è di fondamentale importanza recuperare e approfondire dei concetti che ci guideranno lungo questo percorso di analisi.

La famiglia è uno dei più importanti gruppi di riferimento, che assicura la formazione dell’identità umana per tutti i membri, ma soprattutto per i figli.  All’interno della famiglia i bambini sviluppano autonomia  e appartenenza.  Dunque, il modo in  cui funziona una famiglia ha implicazioni importantissime per lo sviluppo psicologico del bambino.

Perché una famiglia possa funzionare bene devono essere stabiliti, all’interno del nucleo stesso, i confini ossia delle regole che definiscono chi partecipa e come al sottosistema. La funzione dei confini, e quindi delle regole, è quella di proteggere la differenzazione del sistema.  Affinché  una famiglia proceda lungo un iter progressivo in modo sistematico i confini devono essere chiari, in quanto i membri del sottosistema devono poter svolgere i loro compiti.  La chiarezza dei confini è un parametro utile per la valutazione del funzionamento familiare.

Le famiglie con confini diffusi sono famiglie invischiate, spesso concentrate su se stesse con conseguente coinvolgimento tra i componenti e minore distanza. In situazioni di tensione questo sistema diventa sovraccarico e privo di risorse necessarie per adattarsi a cambiare. Dinanzi ad una famiglia invischiata è facile osservare come i membri abbiano sviluppato maggiore senso di appartenenza e minore senso di individualità/autonomia.  Infatti, il comportamento di un membro influenza direttamente gli altri, oltrepassando prontamente i confini e riflettendosi sugli altri.

Con confini eccessivamente rigidi si delineano le famiglie disimpegnate, in cui la comunicazione tra sottosistemi diventa difficile e in cui esistono funzioni di difesa. In questo genere di famiglia i membri del sistema hanno sviluppato minore senso di appartenenza e maggiore individualità e autonomia.  In genere si stratta di  un sistema dove manca la capacità di chiedere aiuto e sostegno e dove è assente il senso di lealtà nei confronti della famiglia. Le tensioni che opprimono un membro non riescono a valicare i confini eccessivamente rigidi, solo un livello di tensione individuale molto elevato può far attivare sistemi di sostegno della famiglia.

Sull’analisi delle strutture familiari, Minuchin ha sviluppato la teoria sull’origine del disturbo psicosomatico. I concetti che fanno capo a questo modello sono i seguenti: – il «paziente designato[i]» è legato agli altri da un rapporto di circolarità, i suoi sintomi influenzano il malfunzionamento della struttura familiare e viceversa; – fattori stressanti esterni possono favorire l’insorgenza del disturbo, ma una volta che è comparso, esso viene mantenuto «omeostaticamente» dalla disfunzione familiare; – può essere presente una predisposizione o un’alterazione organica che spieghi il tipo di sintomo, ma, poiché il paziente reagisce in modo circolare con la famiglia, il disturbo tende a protrarsi anche dopo una terapia medica adeguata.

Secondo questo modello, Minuchin ha ipotizzato quattro modalità collegate alla comparsa e al mantenimento del sintomo psicosomatico. Primo fra tutti è l’invischiamento, che come abbiamo già accennato, è la tendenza dei componenti ad occuparsi eccessivamente degli altri.  In queste famiglie “le porte sono sempre aperte”, anche gli spazi fisici non sono definiti; i membri sono intrusivi, e invadenti. Spesso parlano al posto dell’altro; i ruoli sono confusi e i confini poco distinti. Pertanto, è possibile che in tali famigli i figli hanno un ruolo genitoriale con i fratelli minori e i genitori si comportano come fossero figli.

Un’altra caratteristica fondamentale delle famiglie psicosomatiche è l’iperprotettività. Si tratta di famiglie con importanti livelli di coinvolgimento emozionale, dove ogni segnale di malessere,  di uno o più membri, muove tutto il nucleo ad assumere atteggiamenti eccessivamente protettivi, che limitano l’autonomia e lo sviluppo degli interessi esterni al gruppo.

Terzo elemento distintivo delle famiglie psicosomatiche è la rigidità. In questo caso, il nucleo familiare pone resistenza a ogni forma di cambiamento. Quando un membro cerca di cambiare la propria posizione rispetto al gruppo gli altri agiscono rendendo inutile le forze. Un esempio tipico è il caso dell’adolescente, che pur cercano maggiore autonomia, viene stremato dal gruppo che si compatta e non gli permette di apportare alcuna modifica al loro sistema familiare.

Nei momenti più critici del ciclo vitale[ii]la famiglia cerca di mantenere lo stesso funzionamento divenendo molto vulnerabile.  In fasi come questa, è frequente che uno dei componenti si ammali, spostando su di se ogni preoccupazione.

Ultimo requisito della famiglia psicosomatica, per questo non meno importante, è l’evitamento dei conflitti. Si tratta di famiglie con una tolleranza alle frustrazioni molto bassa e che, non sopportando il disaccordo, soffocano i problemi al loro nascere o li negano. Queste sono famiglie che imparano a convivere con grandi conflitti irrisolti  e che trovano modalità comportamentali funzionali alla loro disfunzione.

Per modificare le caratteristiche disfunzionali delle famiglie psicosomatiche Minuchin tre finalità terapeutiche: lo sviluppo dell’autonomia individuale; il riconoscimento e l’espressione di conflitti; la valorizzazione del cambiamento.

Ad oggi, la maggior parte dei terapeuti ad orientamento familiare e sistemico considerano pregevoli  gli studi fatti da Minuchin e valutano importanti le sue teorizzazioni. Anche i clinici di formazione psicoanalitica e cognitivista, hanno rivolto la loro attenzione allo studio delle relazioni, approfondendo in particolar modo la relazione madre-bambino. Dunque, si può affermare che Minuchin ha contribuito notevolmente a ad allargare i confini della psicosomatica, fornendo contestualizzazioni nuove e ricche di soluzioni ad antichi problemi. Senza mai dimenticare, la complessità dell’esperienza umana, le differenze, le contraddizioni e la ricchezza di pensiero che appartengono all’individuo nel suo essere unico e inimitabile.

Bibliografia                                                                                                                       CANESTRERI R., GODINO A., “Trattato di psicologia”, CLUEB, Bologna, 2002.             DSM-IV, “Manuale Diagnostico e statistico dei disturbi mentali”, Masson,2004.

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TROMBINI G.; BALDONI F., “Disturbi psicosomatici”, Il  Mulino, Bologna, 2001.


[i] Il paziente designato è colui che viene presentato dalla famiglia come problematico. Cfr. Trombini G.; Baldoni F., “Disturbi psicosomatici”, Il  Mulino, Bologna, 2001.

[ii] Ogni organismo vivente, è in continua evoluzione. Non c’è staticità, ma movimento a caratterizzarne l’esistenza.
Se ci avviciniamo alla famiglia con l’occhio allenato a coglierne questa peculiarità di “insieme”, possiamo osservare come essa si muove lungo un processo evolutivo, che gli psicologi chiamano “ciclo vitale”, di cui si possono anche individuare dei punti nodali, o fasi, o tappe evolutive.
Il corteggiamento, il matrimonio, la nascita dei figli, il periodo centrale del matrimonio e l’adolescenza dei figli, l’emancipazione dei genitori dai figli, il pensionamento e la vecchiaia, la morte sono alcune delle tappe evolutive significative, attraverso cui passa e cresce una famiglia.
Il motore di questo processo di crescita è dato dall’interazione di due forze, apparentemente contrapposte, ma in realtà in continuo equilibrio dinamico: una forza che mira al mantenimento di uno stato di equilibrio raggiunto, quasi nel tentativo di salvaguardare una identità, l’omeostasi, e una forza che spinge verso il superamento di quanto già conquistato e costruito, perché già non più funzionale alle esigenze e ai bisogni dei singoli membri – anch’essi in evoluzione costante – e alle richieste della realtà esterna: questa forza la chiamiamo spinta al cambiamento.
L’interazione continua tra queste due forze, l’omeostasi e il cambiamento, fa sì che la famiglia, nel suo insieme, possa costruire la sua storia e procedere nella sua crescita evolutiva. Cfr. Minuchin S.; “Famiglie e terapia della famiglia”, Astrolabio, Roma, 1976. Cfr. Minuchin S.; Rosman B. L.; Baker L.; “Famiglie Psicosomatiche”, Astrolabio, Roma, 1980.

4.Psicosomatica e disturbi del comportamento alimentare

Terapia della Famiglia

Il contributo più importante dato alla psicosomatica dalle teorie sistemiche è quello del pediatra e psichiatra argentino Salvador Minuchin[i], maggior esponente dell’indirizzo strutturale della terapia familiare.

La terapia familiare strutturale mira a riconoscere, esprimere e risolvere i conflitti latenti evitando lo stress emotivo;  ad individuare e rafforzare l’autonomia dei singoli membri e dei sottosistemi e a stimolare e valorizzare ogni potenzialità di cambiamento, di evoluzione e di crescita della famiglia.

Il presupposto di base della terapia familiare si fonda sul concetto che l’uomo non è isolato, al contrario, in quanto individuo, agisce e reagisce all’interno dei gruppi sociali.

Mentre i terapeuti orientati all’approccio individuale sono inclini a vedere l’individuo come il depositario della patologia e a raccogliere soltanto i dati che si possono ottenere dal singolo paziente o che lo riguardano, i terapeuti familiari fanno partecipare alla terapia tutti i componenti della famiglia, cosicché  non c’è bisogno di  postulare l’introiezione delle figure familiari tramite la terapia individuale.

«La famiglia è la matrice dell’identità[ii]».

Ogni uomo che nasce, si impianta nel tessuto familiare specifico (razziale, culturale, religioso, ecc.). All’infinitezza dell’essenza neonata, la famiglia pone limiti e condizionamenti, positivi e negativi.   All’interno dello scenario sociale la famiglia si configura come un fattore significativo del processo evolutivo, si delinea come un gruppo naturale che regola le reazioni dei suoi componenti rispetto agli stimoli, difatti la sua organizzazione e la sua struttura proiettano e qualificano l’esperienza dei membri stessi.  La “coscienza familiare” si esprime attraverso i nomi prescelti, il ricordo delle persone care scomparse, le simbologie peculiari di ogni “clan” familiare, le usanze intrinseche. Con il trascorrere degli anni la mente umana si sviluppa incamerando tutti stimoli che l’ambiente gli fornisce, le informazioni assimilate e immagazzinate divengono parte dell’individuo, del  modo di porsi  nel contesto sociale ove interagisce.

La famiglia diviene il “laboratorio” dove ciascun membro costruisce il senso di identità[iii], che si erige su due elementi: il senso di appartenenza e il senso di differenzazione. Il senso di appartenenza si forma da bambino, man mano che si sviluppa l’adattamento al gruppo familiare di appartenenza e con l’appropriarsi dei modelli transazionali della struttura familiare, che permangono nelle diverse circostanze della vita. Il senso di differenzazione e di individualità si forma con la partecipazione, sia a differenti sottosistemi[iv] in diversi contesti familiari, sia a gruppi extra-familiari.

La struttura della famiglia è un sistema socio-culturale aperto e in continua trasformazione, spesso è sottoposta a stimoli che le offrono la possibilità di adattarsi a situazioni che cambiano senza perdere quella continuità che dà uno schema di riferimento ai suoi componenti.

Bibliografia                                                                                                   CANESTRERI R., GODINO A., “Trattato di psicologia”, CLUEB, Bologna, 2002.             DSM-IV, “Manuale Diagnostico e statistico dei disturbi mentali”, Masson,2004.

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TROMBINI G.; BALDONI F., “Disturbi psicosomatici”, Il  Mulino, Bologna, 2001.


[i] «Salvador Minuchin è uno dei pochi pionieri viventi ed ancora operanti. Nato in Argentina da una famiglia di ebrei russi ivi immigrati, cresciuto in un contesto patriarcale, Minuchin ha tratto dalle sue esperienze di vita infantili il senso  della struttura familiare come sede di organizzazione, di interdipendenza, di regole per salvaguardare sia il funzionamento del sistema familiare nel suo complesso che i margini di libertà di ciascun componente.

Divenuto medico pediatra, ha lavorato dapprima in Israele per i bambini orfani e immigrati, quindi si è trasferito in U.S.A. per specializzarsi in psichiatria.

Negli anni ‘50, è stato chiamato a New York a dirigere un centro residenziale per ragazzi delinquenti. Qui ha sperimentato i limiti del trattamento psicoanalitico per recuperare tali soggetti senza il coinvolgimento delle loro famiglie. Da questa esperienza deriverà per Minuchin l’interesse per il lavoro con le famiglie, in particolare quelle povere e socialmente svantaggiate, caratterizzate da disorganizzazione e indefinitezza di ruoli.

Nel testo del 1974 tradotto in italiano nel 1981 col titolo “Famiglie e terapia della famiglia” (Ed. Astrolabio, Roma) per citare uno dei suoi più diffusi lavori, l’autore illustra con esempi clinici il suo modello di Terapia familiare strutturale, secondo cui il funzionamento della famiglia poggia su alcuni cardini fondamentali: una struttura gerarchica tra le generazioni; la definizione di regole di comportamento; uno stile transazionale compreso fra due estremi: famiglie disimpegnate (legami deboli, scarso senso di responsabilità) e famiglie invischiate (troppo rigidamente collegate, mancanza di chiarezza di confini tra le generazioni).

Nel 1965 Minuchin viene chiamato a dirigere a Filadelfia la Child Guidance Clinic, divenuta, sotto la sua guida, un centro di riferimento internazionale per la T.F. secondo il modello strutturale; la quale negli anni ‘70 diverrà un centro specializzato per il trattamento di alcune patologie giovanili, fra cui l’anoressia, una patologia che cominciava ad assumere dimensioni sociali. Come ci informano U. Telfener e G. Todini la crisi economica degli anni ‘80 e i tagli sulle spese sanitarie hanno interrotto l’ascesa della Child Guidance Clinic, ma non l’attività di Minuchin il quale, trasferitosi a New York, ha continuato ad occuparsi di famiglie svantaggiate e a denunciare il carattere negativo dell’assistenza pubblica volta a focalizzare l’incapacità delle persone piuttosto che agire sulle loro risorse. Attraverso il centro da lui fondato, che oggi porta il suo nome, Minuchin ha continuato ad essere formatore e supervisore e a scrivere di teoria e pratica terapeutica “senza arrendersi”,come lo stesso Minuchin ha affermato.»

Lerma M., Articolo CONVEGNO INTERNAZIONALE “I Pionieri della Terapia familiare”Roma 8/10 dicembre 2000 organizzato da Accademia di psicoterapia della famiglia di Roma, Istituto di terapia familiare di Firenze, Scuola romana di psicoterapia familiare di Roma, www.formazione.eu.com, 2007, Cit. pp.27-28

[ii] Minuchin S.; Rosman B. L.; Baker L.; “Famiglie Psicosomatiche”, Astrolabio, Roma, 1980. Cit. p. 65

8Il senso di identità di ciascun individuo è influenzato dal senso di appartenenza a una specifica famiglia.

[iv]I diversi sottosistemi in una famiglia  sono così differenziati: sottosistema dei coniugi (si forma quando due adulti di sesso diverso si uniscono con l’espresso proposito di formare una famiglia; ha compiti specifici che sono vitali per il funzionamento della famiglia. Le capacità richieste per l’attuazione dei compiti sono la complementarità e il reciproco adattamento); sottosistema dei genitori (nella formazione della famiglia un nuovo stadio del ciclo vitale viene raggiunto con la nascita di un figlio; è ora il momento in cui si deve tracciare un confine che permetta al bambino di interagire con entrambi i genitori, escludendolo dal funzionamento specifico della coppia. Man mano che il bambino cresce, le sue esigenze di sviluppo relative sia all’autonomia dei genitori, sia alla loro guida, impongono richieste al sottosistema genitoriale che deve modificarsi per soddisfarle);  sottosistema dei fratelli ( è il primo laboratorio sociale in cui i figli possono cimentarsi nelle relazioni tra coetanei. In questo contesto i figli si appoggiano, si isolano, si accusano reciprocamente e imparano l’uno dall’altro. Imparano a negoziare, a cooperare e a competere. Spesso il sottosistema fratelli è una notevole risorsa terapeutica. Cfr. Minuchin S.; “Famiglie e terapia della famiglia”, Astrolabio, Roma, 1976. Cfr. Minuchin S.; Rosman B. L.; Baker L.; “Famiglie Psicosomatiche”, Astrolabio, Roma, 1980.

Le relazioni familiari

Se ampliamo il campo di studio all’ambiente sociale dove l’uomo è inserito, si può osservare che le situazioni familiari “particolari” hanno una notevole influenza sull’insorgenza e sul mantenimento delle malattie croniche[i]. Questo  è valido  sia per le patologie psichiche, sia per i comportamenti alimentari (anoressia, bulimia, obesità  o vomito psicogeno), ma anche per malattie somatiche come asma, diabete, psoriasi o retto colite ulcerosa.                                     In casi come quelli sopra elencati, è di fondamentale importanza un approccio terapeutico che  tenga conto delle problematiche non solo individuali ma anche familiari.

Negli anni ’50 vari studi sui bambini affetti da asma dimostrarono che i loro sintomi miglioravano solo durante il ricovero in ospedale. Progressi di questo genere non erano dovuti all’ambiente asettico, tipico dell’ospedale, ma alla lontananza dai conflitti e dalle tensioni familiari. A dimostrazione di ciò i bambini furono esposti alla polvere verso la quale si presumeva l’allergia  e non manifestarono alcuna crisi di asma.

Finanche la nota psicoanalista Hilde Bruch, che si occupava di disturbi alimentari, aveva notato quanto i suoi pazienti fossero morbosamente legati ai propri genitori e alla famiglia in genere, al punto che non si doveva pensare solo ad una terapia che cercasse di modificare la relazione patologica. In quegli stessi anni le teorie sistemiche e la cibernetica[ii] offrirono una nuova visione di affrontare queste situazioni.

Il primo ad utilizzare questi innovativi approcci in psicosomatica  fu Don D. Jackson, il quale trattò, con la terapia ad orientamento sistemico, famiglie di pazienti affetti da retto colite ulcerosa, riscontrando un particolare comportamento  che chiamo restrittivo. Sin dall’inizio Don D. Jackson notò che i nuclei familiari di questo genere erano caratterizzati da relazioni povere a causa di imposizione di regole educative molto rigide, che impedivano ai membri del gruppo familiare la libera comunicazione dei propri sentimenti e la manifestazione di dissensi e di conflitti.

Tutto  questo non permetteva lo sviluppo delle autonomie e limitava l’integrazione delle relazioni sociali. Per tanto le relazioni a scuola o sul lavoro risultavano  faticose, scarse e molto formali.   Inoltre, Jackson ipotizzò che lo stress  familiare  attivasse nel paziente un comportamento,  che contribuisse alla conservazione della propria malattia e,  con “modalità circolare”,  al mantenimento dell’equilibrio familiare (omeostasi del sistema).

Verso la fine degli anni ’60 le teorie sistemiche e cibernetiche si diffusero in tutta l’Europa e in particolare in Italia, qui la psicoanalista e psicoterapeuta Mara Selvini Palazzoli[iii] fondò, insieme ai suoi allievi un Centro di terapia familiare. Mara Selvini Palazzoli, sviluppò il noto modello sistemico, i suoi studi si basarono sulle molteplici famiglie dei pazienti affetti da anoressia mentale e bulimia. Nelle stesse, individuò peculiarità importanti che sembravano favorire il disturbo: – l’inclinazione a respingere qualsiasi asserzione fatta da altri; – l’incapacità  di individuare un leader all’interno della propria famiglia; – il divieto di stabilire ogni forma di alleanza; – l’inabilità ad assumersi delle responsabilità. Così  si dedusse, che il sintomo del disturbo alimentare diventa l’espressione della  forma  comunicativa di tutta la famiglia. Non a caso, infatti, questi genitori  riversando sui figli preoccupazioni e attenzioni frequentemente  gli negano l’autonomia. In situazioni come questa appena descritta, la paziente vive un continuo  stato di sofferenza, specie quando si relaziona con la famiglia di appartenenza.

Il gruppo  della Selvini ha sviluppato un proprio modello terapeutico con l’obiettivo di interrompere il «gioco patologico» della famiglia mediante tecniche quali: la prescrizione paradossale e la connotazione positiva. Con prima tecnica si richiede al paziente o alla famiglia di manifestare o di produrre un comportamento problematico, mentre la seconda permette di sottolineare l’utilità del disturbo per il benessere della famiglia. Con il passare degli anni il modello iniziale ha subito notevoli modifiche e talvolta è risultato compatibile con gli interventi psicoanalitici individuali.


[i] E’ un dato comune che i pazienti con disordini psicopatologici lamentino facilmente di dolore. Il Dolore è un’esperienza sensoriale ed emozionale spiacevole associata a danno tessutale presente o potenziale o descritta come tale. Per ulteriori approfondimenti Cfr. Ercolani M., “Malati di Dolore”, Zanichelli, Bologna, 2001.

[ii] Di teoria sistemica e cibernetica se ne parla all’interno del paragrafo “Psicosomatica secondo una prospettiva sistemica”, Cit. pp.1-2

[iii] «Nata a Milano in una famiglia dai turbinosi ritmi di vita anche per l’originalissima e intraprendente personalità del padre, questa donna straordinaria è riuscita a sopravvivere psicologicamente agli stress dell’infanzia e del difficile rapporto con i genitori grazie alla sua capacità di resilienza, ossia di quel fattore positivo in grado non solo di superare, ma di rendere produttivi eventi e condizioni di vita altrimenti negativi.

Come afferma il figlio Matteo, tali fattori di resilienza sono riconoscibili nella Selvini sia nella sua capacità di relazione con le persone, sia nella dedizione allo studio, sia ancora nella sua spiccata attitudine a non essere passiva, a non sentirsi vittima, a lottare senza odiare.

Come medico, psichiatra e psicoanalista Mara Selvini ha dedicato la prima parte della sua vita professionale al trattamento di ragazze anoressiche, divenendo, negli anni 60 una esperta di fama europea anche attraverso la pubblicazione, nel 1962, del libro “L’anoressia mentale” (Feltrinelli, Milano).

Affascinata dall’esordiente movimento di T.F. in U.S.A., la Selvini nel 1967 ha fondato a Milano, con colleghi medici, il primo Centro per lo studio della Famiglia, inizialmente ad orientamento psicoanalitico, successivamente adottando il modello/strategico di Palo Alto per il lavoro con le famiglie di giovani psicotici e anoressiche.

Il testo “Paradosso e controparadosso” (Feltrinelli, Milano, 1975) scritto in collaborazione con L. Boscolo, G. Cecchin e G. Prata avrà grande influenza nella pratica della T.F. specie per il rigore metodologico e la creatività degli interventi paradossali.

Successivamente Mara Selvini svilupperà in modo originale la T.F. abbandonando il modello strategico a favore di una progressiva ricerca sia sul gioco familiare, sia sulla contestualizzazione dei sintomi/problemi nella storia familiare, sia ancora sulla riscoperta dell’individuo con le sue emozioni, aspettative e sofferenze.

Troppo lungo sarebbe descrivere il variegato itinerario di ricerca vissuto dalla Selvini sia con la sua prima équipe che con quella formata nel 1982 con S. Cirillo, A.M. Sorrentino e il figlio Matteo, dopo la costituzione del Nuovo Centro per lo studio della Famiglia e poi della Scuola di specializzazione in T.F., che oggi porta il suo nome. Basti ricordare i due testi fondamentali elaborati negli anni ‘80 e ‘90 “I giochi psicotici della famiglia” (Cortina, Milano, 1988) e “Ragazze anoressiche e bulimiche” (Cortina, Milano, 1998) come espressione di una intensa attività di studio e ricerca. Molti sono stati i riconoscimenti scientifici tributati alla Selvini in Italia e all’estero per la sua attività di ricercatrice e di psicoterapeuta. Forse quello che più le avrebbe toccato il cuore riguarda la riconoscenza e l’affettuosa stima dei suoi allievi e collaboratori, molti dei quali, nel giorno della sua commemorazione hanno espresso con commovente sincerità e semplicità la loro gratitudine per aver avuto il privilegio di conoscerla, di essere stati influenzati dal suo pensiero in costante evoluzione, dalla sua esuberante personalità, dalla sua intensa curiosità intellettuale edalla sua profonda umanità come donna, docente e terapeuta. »

Lerma M., Articolo CONVEGNO INTERNAZIONALE “I Pionieri della Terapia familiare”Roma 8/10 dicembre 2000 organizzato da Accademia di psicoterapia della famiglia di Roma, Istituto di terapia familiare di Firenze, Scuola romana di psicoterapia familiare di Roma, www.formazione.eu.com, 2007, Cit, p.26

Bibliografia                                                                                                                       CANESTRERI R., GODINO A., “Trattato di psicologia”, CLUEB, Bologna, 2002.             DSM-IV, “Manuale Diagnostico e statistico dei disturbi mentali”, Masson,2004.

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La visione Psicosomatica

I  significati del termine Psicosomatico

Il vocabolo psicosomatico fu coniato nel 1818 dal medico psicologo J.C. Heinroth, che aspirò a raggruppare in un unico pensiero la dualità  mente-corpo. Quattro anni dopo, nel 1822, il medico K.W. Jacobi propose il termine somato-psichico per sottolineare l’influenza delle esperienze corporee sull’unità psichica.  In entrambi i casi si avvertiva l’esigenza di riunire in un’unica essenza i concetti di psiche e soma, che per  lunghi anni erano stati considerati separati. Con il tempo la parola «psicosomatico» è stata utilizzata nei contesti più disparati, così da divenire emissario di concetti come quello di «stress[i]» o di «qualità di vita», che troppo spesso sono stati utilizzati in modo superficiale rischiando di eluderne il significato scientifico. Per tanto, è di fondamentale importanza, chiarire almeno alcuni dei significati che il termine assume quando viene utilizzato in contesti definiti di carattere clinico o di ricerca. Quando in passato si parlava di psicosomatica ci si riferiva ad essa solo in relazione a quelle malattie organiche la cui causa era rimasta oscura e per le quali si pensava potesse esistere una “genesi psicologica”. Oggi è largamente condivisa l’accezione di psicosomatica come scienza che pone in relazione la mente con il corpo, ossia il mondo emozionale ed affettivo con il soma, occupandosi nello specifico di rilevare e capire l’influenza che l’emozione esercita sul corpo e le sue affezioni. Pertanto, corpo e mente non sono più considerati come due componenti separate ma due parti, in continua influenza reciproca, di un tutt’uno:  l’uomo nella sua unità somato-psichico.  In ambito medico è ormai largamente condivisa l’idea che il benessere fisico abbia una sua influenza su sentimenti ed emozioni e che a loro volta questi ultimi abbiano una certa ripercussione sul corpo. Non a caso il vecchio concetto di malattia intesa come “effetto di una causa”, è stato sostituito con una visione multifattoriale secondo la quale ogni evento (e quindi anche una affezione organica) è conseguente all’intrecciarsi di molti fattori, tra i quali sta assumendo sempre maggior importanza il fattore psicologico. Si ipotizza inoltre, che quest’ultimo, a seconda della sua natura, possa agire favorendo l’insorgere di una malattia, o al contrario favorendone la guarigione. E’ possibile distinguere malattie per le quali i fattori biologici, tossico-infettivi, traumatici o genetici hanno un ruolo preponderante e malattie per le quali i fattori psico-sociali, sotto forma di emozioni e di conflitti attuali o remoti, sono determinanti. In questo senso l’unità psicosomatica dell’uomo non viene persa di vista e i sintomi o i fenomeni patologici vengono indagati in modo complementare da un punto di vista psicologico e fisiologico.     Si parla di psicosomatica non solo come prospettiva con la quale guardare l’evento patologico, ma anche in relazione a sintomi somatici fortemente connessi alle emozioni e in relazione alle cosiddette vere e proprie malattie psicosomatiche. Per quanto riguarda i sintomi psicosomatici, essi, pur non espletandosi in vere e proprie malattie, si esprimono attraverso il corpo, coinvolgono il sistema nervoso autonomo e forniscono una risposta vegetativa a situazioni di disagio psichico o di stress.     Al contrario, sono considerate vere e  proprie malattie psicosomatiche quelle alla quali classicamente si riconosce una genesi psicologica (o quantomeno in buona parte psicologica) ed in cui si realizza un vero e proprio stato di malattia d’organo con segni indiscutibili di lesioni.               Quali sono i disturbi e le malattie psicosomatiche? La varietà dei modelli interpretativi consente solo in modo approssimativo di elencare e classificare le malattie e i disturbi psicosomatici. In ogni caso le malattie che storicamente sono state sempre interpretate come psicosomatiche sono l’ipertensione arteriosa, l’asma bronchiale, la colite ulcerosa, l’ulcera gastro-duodenale e l’eczema. Negli ultimi anni questo elenco si è andato via via infoltendo fino a comprendere: i disturbi alimentari che si evidenziano intorno ai due eccessi rappresentati dall’anoressia e dalla bulimia con conseguente obesità; le malattie e i sintomi psicosomatici a carico del sistema gastrointestinale dove tra le malattie organizzate c’è, oltre alla colite ulcerosa e all’ulcera gastro-duodenale, la rettocolite emorragica, mentre tra i disturbi psicosomatici sono presenti la gastrite cronica, l’iperacidità gastrica, il colon irritabile o spastico, la stipsi, la nausea e il vomito, la diarrea (da emozione, da “esami”); malattie a carico del sistema cardiovascolare ad esempio le aritmie, le crisi tachicardiache, le coronopatie (angina pectoris, insufficienza coronarica, infarto) l’ipertensione arteriosa essenziale, la cefalea emicranica, la nevrosi cardiaca; malattie relative al sistema cutaneo ad esempio la psoriasi, l’eritema pudico (rossore da emozione), l’acne, la dermatite atopica, il prurito, la neurodermatosi, l’iperidriosi, l’orticaria, la canizie, la secchezza della cute e delle mucose, la sudorazione profusa; malattie relative al sistema muscolo scheletrico (crampi muscolari, torcicolli, cefalee), malattie relative al sistema genitourinario ad esempio dolori mestruali, disturbi minzionali, enuresi, impotenza e malattie e i sintomi psicosomatici relativi al sistema endocrino ad esempio, iper o ipotiroidismo, ipoglicemia, diabete mellito.   In conclusione si può affermare che le malattie somatiche sono quelle che più strettamente realizzano uno dei meccanismi difensivi più arcaici con cui si attua una espressione diretta del disagio psichico attraverso il corpo. In queste malattie l’ansia, la sofferenza, le emozioni troppo dolorose per poter essere vissute e sentite, trovano una via di scarico immediata nel soma (il disturbo); non sono presenti espressioni simboliche capaci di razionalizzare il disagio psicologico e le emozioni, pur essendo presenti, non vengono percepite. In genere il paziente psicosomatico si presenta con un buon adattamento alla realtà, con un pensiero sempre ricco di fatti e di cose e povero in emozioni. Per meglio chiarire si tratta di un paziente che difficilmente riferisce sentimenti quali rabbia, paura, delusione, scontentezza, insoddisfazione. Spesso si tratta di pazienti che hanno difficoltà a far venire alla luce emozioni, che separano dalle cose ogni elemento di fantasia. Tutte le loro capacità difensive tendono a tener lontani contenuti psichici inaccettabili, a costo di distruggere il proprio corpo. In questo senso una persona, incapace di accedere al suo mondo emotivo, potrebbe non percepire rabbia, frustrazione o stress per una difficile condizione lavorativa e neppure immaginare una possibile connessione tra la sua “ulcera” e le emozioni o i vissuti relativi al suo lavoro. Anche se tali caratteristiche non sono sempre presenti in assoluto in quelli che presentano una patologia psicosomatica, sembra che comunque permanga, sempre, in queste persone una parte dell’io che tende a funzionare in questo modo.

Psicosomatica secondo una prospettiva sistemica

Prima di addentrarci nello specifico della trattazione sulla psicosomatica, per comprendere e contestualizzare concetti ricchi di significato,  dobbiamo  analizzare, in una visione di insieme, l’approccio sistemico. La teoria dei sistemi si sviluppa nella metà degli anni ’50, in seguito agli studi di ricercatori come Batterson, Watzlawick, Jacksone e Harley. In questi anni il modello meccanicistico  di causalità lineare viene superato dal modello di causalità circolare. Nel primo il rapporto tra causa ed effetto è inteso in senso lineare. Un esempio di questo tipo lo si trova nel modo in cui la medicina ha concepito l’origine di molte malattie. Un organismo estraneo (virus o batterio) penetra nel corpo umano provocando un’alterazione dei tessuti (l’infezione) che danneggia gli organi determinando una malattia. Secondo questa logica, la malattia può essere curata solamente risalendo alla causa ed eliminandola. Concepire gli eventi secondo una linearità di causa-effetto ha concesso alla medicina di progredire nello studio e nella cura di molte malattie, ma allo stesso tempo ha comportato una eccessiva semplificazione eludendo gli aspetti emotivi e relazionali dell’uomo.                                                                                                                           Durante il Novecento si è tentato di superare i limiti della visione lineare arrivando a concepire il processo casuale in senso multifattoriale. Secondo questa visione molti fattori vengono considerati le concause di un unico evento. Così, riprendendo l’esempio precedente, uno specifico agente infettivo può concorrere allo sviluppo della malattia, assieme ad altri di natura ereditaria, psicologica, sociale e ambientale. Il modello in questione impedisce una visione unitaria del problema, in quanto comporta una importante scissione di cause e concause. Verso la metà dello stesso Secolo le idee sul concetto di causa hanno fatto un notevole passo in avanti grazie al contributo di nuove teorie, come quelle sistemiche e cibernetiche le quali condividono una visione circolare del rapporto di causalità.  Secondo Ludwig von Bertalanffy, che propose la Teoria Generale dei Sistemi, un sistema può essere definito come una totalità organizzata e finalizzata, che supera il vecchio principio meccanicistico fondato sul “caso” e tende attraverso meccanismi di autoregolazione all’omeostasi e alla ricerca di un nuovo equilibrio, capace di aprire verso livelli di crescita sempre migliori e verso un ordine sempre più articolato. Seguendo questa prospettiva tutte le situazioni, comprese quelle umane possono essere considerate dei sistemi i cui componenti si determinano l’un l’altro senza che alcuno di essi assuma il ruolo di causa  o di effetto.  Così, un elemento influenza gli altri, ma è altrettanto influenzato da essi, contribuendo all’equilibrio dell’intero sistema. La causalità non è una caratteristica dei singoli componenti, ma è insita nella relazione che si stabilisce all’interno del sistema. Tale processo lo si può immaginare come un cerchio dove i vari elementi sono in rapporto tra loro.  Non interessa più scoprire una catena di cause ed effetti per arrivare all’origine degli eventi, ma studiare l’organizzazione e l’equilibrio di un sistema in una determinata situazione.  Nel caso della malattia l’importante è scoprire i vari fattori che interagendo tra loro provocano sofferenza e disadattamento.               Legato al concetto di causalità circolare è quello di retroazione o feedback. Mediante la retroazione un evento non solo genera altri eventi, ma è anche regolato da essi in modo retroattivo. La retroazione può essere positiva o negativa in base al cambiamento e alla trasformazione dell’equilibrio all’interno della relazione fra le parti.

Conflitti Psicologici

Secondo alcune scuole di pensiero lo svilupparsi del disagio psicosomatico è da imputare a conflitti ideo-affettivi profondi, a volte di natura molto remota. La malattia, dunque, non sarebbe altro che la “somatizzazione” di conflitti[ii] non risolti. Essa si sviluppa lentamente e si manifesta sotto la pressione di un evento-stimolo, quale una grossa frustrazione, un dolore affettivo, oppure come frutto delle pressioni dell’ambiente in cui l’individuo vive.                                               L’espressione del sintomo, sarebbe dovuta, secondo alcuni ricercatori, al meccanismo della regressione a forme di espressione tipiche di fasi precoci dello sviluppo. Infatti il bambino in età preverbale manifesta le sue emozioni esclusivamente attraverso il corpo: il bambino affamato piange, quello gratificato e appagato sorride. Nella fase evolutiva successiva, quella verbale, il bambino impara ad “esprimere” le sue emozioni. Così, mentre la “somatizzazione” riproporrebbe l’espressione del primo stadio evolutivo infantile (preverbale, quella in cui l’ansia si esprime a livello somatico), la nevrosi invece riproporrebbe l’espressione più avanzata del secondo stadio (verbale). Nella persona che somatizza, ansia, sofferenza, emozioni particolarmente forti o dolorose, trovano una via di scarico immediata nel corpo (il disturbo), per poter essere percepite. In genere l’individuo con disagi psicosomatici si presenta con un buon adattamento alla realtà, con un pensiero ricco di fatti e di cose ma povero di emozioni (Alessitimia). Molto spesso si tratta di un soggetto che ha difficoltà ad accedere al proprio vissuto emotivo, e perciò gli riesce difficoltoso percepire rabbia, frustrazione, stress, e quindi può non riuscire ad immaginare una possibile connessione tra il suo disagio corporeo e le emozioni o i vissuti relativi al suo lavoro o ad altre circostanze esistenziali.             Nell’insorgere della “somatizzazione”, è determinante l’ambiente in cui l’individuo vive: ambienti ansiogeni, aggressivi, competitivi o repressivi, sottopongono l’individuo ad uno stress continuo, determinando l’humus patologico che nutre la problematica psicologica personale sino a farla esplodere nella “somatizzazione”. La somatizzazione si struttura sostanzialmente in quattro fasi: all’inizio c’è un disagio psicologico, poi un blocco funzionale, segue una alterazione cellulare e infine la lesione anatomica. Nella “somatizzazione” il sintomo può a volte manifestare in forma simbolica il tipo di disturbo che esprime; ad esempio l’astenia può simboleggiare il dispendio di energie ad opera di un conflitto che lascia poche forze all’individuo; il vomito può indicare il rifiuto di una situazione inaccettabile; il prurito può rappresentare una forma di autoaggressività dovuta a sensi di colpa, ecc.

Specificità della malattia rispetto alla personalità

La Dunbar (1943) intendeva la specificità della malattia soprattutto rispetto alla personalità. Lavorando su una vasta mole di interviste anamnestiche ed attraverso l’uso della diagnostica psicodinamica, essa affermava di aver individuato delle significative correlazioni tra malattie e profili di personalità: tutti i pazienti affetti, per esempio, da ipertensione hanno caratteristiche di personalità simili. Secondo la Dunbar, dunque, esisteva una sorta di cliché caratteriale per ogni malattia psicosomatica. Il soggetto sofferente alle coronarie, ad esempio, era una persona che lavorava e lottava con fermezza, che aveva grande autocontrollo e tendeva al successo e al pieno raggiungimento degli scopi prefissi. Mentre il malato di ulcera peptica era un tipo iperattivo ed eccessivamente intraprendente.                                                                                                     Le teorie della Dunbar venivano criticate da più parti. Sul versante psicoanalitico esse erano accusate di superficialità, di valutare soltanto gli aspetti del comportamento osservabili a livello esteriore, ovvero di non cercare ed analizzare il materiale inconscio da cui, secondo la prospettiva psicodinamica, traggono origine le azioni umane. Per gli esponenti dell’approccio psicofisiologico invece, la Dunbar non aveva offerto una spiegazione della correlazione tra malattie psicosomatiche e tratti di personalità e non aveva dato nessuna indicazione su come questi ultimi possono dare inizio al disturbo e mantenerlo. Le idee della Dunbar tuttavia hanno avuto larga diffusione nella letteratura psicosomatica successiva. Esse sono rintracciabili nelle teorizzazioni di Friedman e Rosenman sulle associazioni tra disturbi e tipi di personalità, che si sono imposte con forza nel dibattito medico sino alla fine degli anni ’80. Allo stesso modo l’influenza della Dunbar è evidente nelle opere di Claus Bahnson sulle correlazioni tra personalità e cancro.

Specificità della malattia in corrispondenza delle emozioni

Franz Alexander era convinto che le correlazioni tra personalità e malattie evidenziate dalla Dunbar avessero soltanto un valore statistico e che sostanzialmente erano “misteriose, vaghe e casuali”. Al contrario, egli riteneva che “una distinta correlazione fra certe costellazioni emotive e certe funzioni vegetative” fosse oggettivamente dimostrabile al pari degli equivalenti fisiologici delle emozioni. Questi ultimi, infatti, erano stati sperimentalmente definiti dalle ricerche di Cannon ed Hess e delineavano, con precisione, l’esistenza di due categorie principali dell’emozione: preparazione alla lotta o alla fuga in condizioni di emergenza, piacere ed acquiescenza. Queste due categorie corrispondevano alle due configurazioni fondamentali di attività vegetativa: l’attivazione del sistema nervoso simpatico in condizioni di allarme e l’azione del sistema nervoso parasimpatico verso la riparazione, l’accrescimento dell’organismo e il ripristino metabolico delle sue energie. Al contrario del simpatico, preposto alla mobilitazione delle risorse corporee dell’organismo in vista di condizioni di emergenza, il parasimpatico presiede al controllo delle funzioni vegetative dell’organismo, come la digestione, l’escrezione, come i meccanismi alla base dei comportamenti sessuali. I disturbi psicosomatici, che Alexander definiva anche nevrosi vegetative, rappresenterebbero l’effetto della persistenza e della cronicizzazione dell’attivazione fisiologica tipica di una di queste due categorie emotive, dovuta ad uno specifico conflitto psichico che impedisce lo scarico delle emozioni in una azione esterna. Così, le patologie correlate alle emozioni legate alla lotta o alla fuga “sarebbero il risultato di inibizioni o di repressioni di impulsi ostili e di autoaffermazione”. Tali repressioni, infatti, impedendo l’estrinsecazione dei corrispondenti comportamenti di lotta o di fuga finiscono per indurre, con la cronicizzazione delle tipiche risposte vegetative di attivazione simpatica, l’alterazione delle funzioni di un organo dotato di fragilità costituzionale o acquisita. Ad esempio, alcune sindromi cardiache rappresenterebbero gli effetti dell’ansietà neurotica o della repressione della collera; mentre l’ipertensione essenziale, sarebbe il risultato di un incremento della pressione sanguigna mantenuto dall’attivazione del simpatico tipica delle emozioni di rabbia; allo stesso modo l’attivazione e il blocco dei sistemi neuro-endocrini legati alla lotta e alla fuga porta all’emicrania e l’ipertiroidismo, all’artrite reumatoide.

Le affezioni psicosomatiche dipendenti dal blocco delle emozioni connesse alle attività trofiche e riparative del parasimpatico erano, secondo Alexander, tutti i disturbi funzionali gastroenterici, l’asma, l’affaticamente cronico. Essi costituirebbero, infatti, l’esito di un fenomeno psicologico e quindi vegetativo di “ritirata” dall’azione e di disimpegno dall’adattamento ad un ambiente ostile. Per esempio, un individuo ansioso ed insicuro, sempre pronto a recedere dalla lotta e dai possibili pericoli, poteva mettere in atto, secondo Alexander, risposte viscerali paradossali, come la secrezione dei succhi gastrici, che si accompagnano a situazioni di sicurezza e di dipendenza, come l’alimentazione quando si è bambini. Reiterando tale atteggiamento e tale risposta fisiologica, il soggetto in questione, finirebbe per sviluppare un’ulcera peptica o la colite.

Il modello di Alexander presentava tuttavia alcune serie debolezze. In primo luogo i disturbi psicosomatici che egli pretese di descrivere, come l’emicrania, l’ipertensione, l’ipertiroidismo, l’artrite, la colite, l’asma avevano in realtà una natura eterogenea erano in effetti sindromi, piuttosto che entità nosologiche univoche. In questo senso cade l’idea stessa di specificità dei legami tra conflitti emotivi e disturbi somatici. In secondo luogo, l’ipotesi della specificità dei conflitti implica logicamente l’idea che possa sussistere una netta differenza tra i blocchi emotivi che innescano una patologia e quelli che la mantengono. Se vogliamo adottare la prospettiva di Alexander, è evidente che quando la malattia si manifesta l’individuo viene trasformato sia in senso fisiologico che psicologico.

Alexander credeva, inoltre, che i blocchi emotivi potessero innescare la malattia soltanto in presenza di una costituzionale vulnerabilità d’organo e di una situazione esterna scatenante. Egli aderiva così ad una concezione multifattoriale della malattia psicosomatica. Ciò era comunque in contrasto con l’idea forte della specifità dei conflitti per i disturbi psicosomatici. Quest’ultima, in Alexander e nella tradizione psicosomatica di quel periodo, si legava oltretutto alla rivendicazione di una identità particolare della patologia ex emotione che legittimava la stessa esistenza della medicina psicosomatica. Da un lato infatti in un modello multicausale della malattia, la specificità del conflitto viene a diluirsi e a smarrirsi tra le molte cause necessarie ma non sufficienti per provocare la condizione morbosa. Dall’altro la teoria della multifattorialità della malattia, peraltro avanzata con forza da molti psicosomatisti, contiene logicamente, finendo per annullarla, l’identità stessa della medicina psicosomatica, quest’ultima fondamentalmente radicata sull’idea dell’esistenza di malattie prodotte da cause psicologiche.

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[i] Il concetto di stess è molto complesso. Una definizione più attuale indica lo stress umano e animale come uno «stato di tensione dell’organismo in cui vengono attivate difese per far fronte a una situazione di minaccia». Esso infatti può essere utilizzato come sinonimo di uno stimolo ambientale nocivo, ma anche la risposta dell’organismo a sollecitazioni diverse, sia di natura esterna che interna.  Si parla anche di stess positivo (eustess) quando comporta esperienze appaganti e maturative, o di stess negativo (distess) quando è fonte di difficoltà e sofferenze. E’ possibile suddividere gli eventi stressanti in due grandi categorie: eventi improvvisi, ben identificabili e limitati nel tempo, che comportano di solito conseguenze importanti per l’indivisuo(matrimoni, lutti, diventare genitori, separazioni, licenziamenti etc); ed eventi che riguardano le difficoltà incontrate nella vita di ogni giorno (nella famiglia, sul lavoro, nei rapporti sociali). Questo tipo di stess, definito anche stess quotidiano, è difficile da riconoscere e spesso sottovalutato. Secondo Harrè, Lamb, e Mecacci (1983) ci sono almeno tre modi  per affrontare lo studio e la definizione di stess. Il primo è quello di trattare il termine secondo la sua accezione di nocività ambientale: lo stess provocato da uno stimolo fisico eccessivo; un secondo tipo, che ha origine dalle ipotesi di Selye (1974), si riferisce al suo carattere bio-fisiologico (mediatore ormonale o nervoso). L’ultimo approccio che i tre studiosi riportano è maggiormente centrato sulla relazione dinamica dell’individuo con il suo ambiente, così come percepito ed elaborato dal soggetto stesso. Tale modello si definisce in termini di “processo” e fa capo agli studi di Lazarus (1976). Il primo studioso ad essersi occupato di stess dal punto di vista psicosomatico è stato Cannon, che aveva descritto come “risposta di allarme” un insieme di reazioni che predispongono l’organismo a comportamenti di attacco e fuga. Scoprì inoltre che non erano le uniche prodotte, bensì rappresentavano il primo di una serie di adattamenti e modificazioni fisiologici messe in atto per fronteggiare difficoltà provenienti dall’esterno. Cannon fu il primo anche a  coniare il termine omeostasi per designare l’equilibrio interno dell’organismo. Per ulteriori approfondimenti Cfr. Marocci G., “Abitare l’organizzazione”, Edizioni Psicologia, Roma, 1996

[ii] “Il Conflitto è dato da una situazione in cui forze di valore approssimativamente uguali ma dirette in senso opposto agiscono simultaneamente sull’individuo” (Lewin).

Ogni situazione conflittuale è teoricamente riportabile alla coesistenza di tendenze verso due differenti forme di comportamento. Il conflitto può essere: Conflitto tra due tendenza appetitive ; Conflitto tra una tendenza appetitiva e una avversativa verso lo stesso oggetto; Conflitto tra due tendenza avversative; Conflitto composto da  più tendenze appetitive ed avversative;  I Conflitti possono scaturire da diverse cause, possono essere conflitti di ruolo, conflitti personali, sociali, etc., ma alla base di tutti si muovono due forze contrarie. Certo è che il conflitto si riduce in relazione alla motivazione e all’associazione del rinforzo positivo che ha verso uno stimolo. Ma talvolta il conflitto è anche causa turbe sia generali sul comportamento che manifestazioni viscerali psicosomatiche. A proposito del conflitto dobbiamo citare la teoria della dissonanza cognitiva di Festinger e notare come si può ridurre o annullare un conflitto o un comportamento dissonante mediante l’acquisizione  di più informazioni sull’elemento dissonante, la modifica di un elemento cognitivo relativo all’ambiente fisico o quello psicologico, il cambiamento di uno degli elementi cognitivi  direttamente riferiti al comportamento. Per ulteriori approfondimenti Cfr. Canestrari R., Godino A., “Trattato di pscologia”, CLUEB, Bologna, 2002. Cfr. Trentin R. “Gli atteggiamenti sociali”, Bollati Boringhieri, Torino, 2002.

3. La famiglia psicosomatica

Mente e Corpo

Mente e Corpo

Dicotomia  Mente e Corpo

L’uomo è un’entità formata da corpo e mente. E’ un insieme inscindibile di queste due parti, aspetti diversi di una sola totalità. Corpo e mente non sono separati ma sono parte l’uno dell’altra. Tuttavia il corpo  ha un’essenza diversa dalla mente, può essere misurato nelle sue dimensioni spaziali, fotografato e pesato.  Si possono derivare, in modo scientifico, dati oggettivi delle sue funzioni, si possono analizzare i suoi fluidi e le sue secrezioni ed è possibile sezionarlo per studiarlo nelle sue componenti anatomiche.

Talvolta però, tutte queste conoscenze non si sono rivelate assolute e non sono state sufficienti per fornire una visione più precisa del corpo. Basti pensare che spesso  la percezione del nostro corpo muta da un momento all’altro e sembra non essere mai lo stesso. E’ sufficiente vivere un’esperienza diversa o un’emozione più intensa, che all’improvviso si manifesta un corpo che non riconosciamo come quello di partenza.

«L’esperienza umana oscilla continuamente tra la sensazione di avere e quella di essere il nostro corpo[i]»

Il concetto di corpo non è poi così disgiunto da quello di mente. Infatti, si ritiene che l’essere umano sia capace di una rappresentazione psichica del proprio corpo e questa funzione si sviluppa sin dalla nascita, mediante il rapporto madre-bambino.

Il corpo, ha una funzione fondamentale nella comunicazione. Il linguaggio non verbale può confermare e/o negare tutto quanto viene trasmesso con le parole.

Se il concetto di corpo è più chiaramente comprensibile in modo, semplice e unitario, quello di mente o psiche risulta essere più ambiguo e complesso. La parola psiche o mente rimanda a concetti non osservabili concretamente e difficile da descrivere, come le emozioni, i sentimenti, le fantasie e il pensiero.  Ed è proprio nella difficoltà di comprendere la mente, che l’uomo, per lunghi anni, si è percepito solo negli stimoli corporei.

Oggi, invece,  le emozioni svolgono un ruolo importante nel motivare e orientare il comportamento.

Infiniti esempi, tratti dall’esperienza umana, dimostrano che comunissimi fenomeni psicologici, come una leggera emozione di gioia e/o di paura, si ripercuotono nell’organismo causando tachicardia; di contro, un banalissimo disturbo organico, come il raffreddore, si ripercuote sull’umore creando notevole irritazione. E, ancora: un succedersi di pesanti e particolari tensioni emotive può provocare, in alcuni individui, malattie come l’ulcera gastrica o l’ipertensione. L’approccio psicosomatico è un tentativo di vedere le persone nella loro interezza e, soprattutto, di comprendere che cosa loro succede. Possiamo dire che la medicina psicosomatica è nata per contrapporsi alla tradizione meccanicistica e riduzionista della filosofia ottocentesca, che separava nettamente la vita psichica e la malattia, essendo quest’ultima considerata sempre di origine organica, dovuta cioè alla lesione di qualche parte del corpo. La medicina psicosomatica si fonda sul concetto  chiave che la persona rappresenta una inscindibile unità biologica, fatta di corpo e mente, cioè di fattori psichici ed emotivi che svolgono un ruolo determinante nello sviluppo delle malattie organiche. In generale, quindi, possiamo dire che la psicosomatica è lo studio dei rapporti intercorrenti tra mente e corpo. Essa parte dalle premesse che ogni malessere di natura psicologica abbia una ripercussione a livello somatico, e che viceversa una malattia organica comporti una alterazione della sfera psicologica. Al di là delle varie interpretazioni è sicuramente un modo nuovo di concepire l’uomo malato, una modalità che non considera solo l’organo malato da “curare”, ma la globalità  psichica, sociale e culturale dell’essere umano, per cui l’organo rappresenta solo l’espressione ultima di un disturbo.

Il dualismo Cartesiano

Il rapporto tra soma e psiche è un discorso piuttosto antico. I primi studi sull’unità psicosomatica dell’uomo, risalgono alla scuola ippocratica. La dottrina ippocratica si propone di liberare la medicina da ogni concezione magica e religiosa, per farne una scienza basata su un metodo sicuro e razionale di diagnosi e di terapia. La salute o la malattia dell’organismo umano sono il risultato di un’armonia o disarmonia interna dell’organismo, legata all’equilibrio di quattro umori che esso contiene (sangue, flegma, bile gialla, bile nera) la cui diversa proporzione determina anche il temperamento dell’individuo e l’adeguamento dell’organismo all’ambiente climatico, geografico e politico sociale. In base a ciò, l’approccio terapeutico doveva ristabilire la perdita di armonia che deve normalmente esistere in ciascun individuo. Con Platone (primo sostenitore della posizione dualistica) si introduce la distinzione tra anima e corpo, sostanze indipendenti e irriducibili l’una all’altra. L’anima era considerata immortale e continuava a vivere dopo la morte. Per Aristotele, che rifiuta il dualismo platonico, l’anima conferisce la forma al corpo che da esso non può essere separata. L’anima, quindi, diventa il principio vitale del corpo. Con Cartesio, il dualismo (mente – corpo) anziché conoscere un rinnovamento subisce una potente cristallizzazione. La mente ed il corpo erano considerate entità completamente separate; il corpo era una macchina governata dalla mente e seppure corpo e spirito erano divisi e separati, esercitavano un’influenza reciproca. Vedere ancora oggi applicata questa posizione culturale, cioè diversificare nettamente psiche e soma nell’affrontare una patologia, è l’errore più grande, perché come già evidenziato, il corpo e la mente non sono separati ma sono parte l’uno dell’altra, aspetti diversi ma costitutivi di una totalità. In definitiva è un approccio scientifico che congloba la totalità dei processi integrati di rapporto tra il sistema somatico, psichico, sociale e culturale. Per gli orientamenti scientifici tradizionali invece il concetto psicosomatico è una conquista recente, perché a causa di pregiudizi scientifici essa era ancorata alla concezione che l’uomo fosse un prodotto materiale e che la malattie fosse perciò solo una realtà organica. Esistono, tuttavia, reazioni e disturbi psicosomatici. La reazione psicosomatica è episodica, magari momentanea, e scaturisce da un evento stimolo: per esempio nella tachicardia da spavento c’è una evidente alterazione del battito cardiaco, che è solo momentaneo e che scompare appena passa la reazione emotiva. Nei disturbi psicosomatici esiste invece un’alterazione duratura, funzionale oppure organica. Nel primo caso l’organo non è leso, ma si comporta come se lo fosse: un esempio tipico è la nevrosi cardiaca, in cui esistono tutti i sintomi dei disturbi cardiaci, ma il referto clinico appare negativo. Nella malattia organica esiste una lesione all’organo in questione: un esempio è l’ulcera gastro – duodenale, che oltre ai sintomi comporta un referto anatomo – patologico ben preciso ed individuabile.


1.Mente Corpo

[i] Trombini G.; Baldoni F., “Disturbi psicosomatici”, Il  Mulino, Bologna, 2001. Cit. p. 16.

2.La visione Psicosomatica

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