La Famiglia Anoressica

L’ identità proviene dalla nostra famiglia. Ed è in questo nucleo di base che il bambino inizia ad esperire le prime realtà. La bambina anoressica cresce in una famiglia che agisce su modelli altamente invischiati e una bambina che cresce in tale sistema familiare impara a subordinare il proprio sé agli altri, dove l’approvazione si sostituisce alla ricompensa.

Secondo gli studi fatti da Minuchin e coll., una bambina che si  è relazionata con modelli invischiati può diventare anoressica, specie se nella famiglia sono presenti anche altri processi.

La protettività è una delle caratteristiche tipiche delle famiglia anoressica. Non a caso la bambina anoressica cresce protetta dai genitori, che si focalizzano solo sul suo benessere. I genitori ipervigilanti e attenti ai bisogni psicofisiologici della bambina, mostrano così tutte le loro preoccupazioni che investono la piccola.

Nel momento che la bambina sperimenta, che quello che fa è dominio di chi le sta attorno,  sviluppa un perfezionismo ossessivo e un’attenzione particolare su sé e sui segnali delle altre persone. Così la sua preoccupazione diventa l’approvazione dei genitori.

La bambina è socializzata ad agire come si aspetta la famiglia ed è particolarmente attenta a non mettere in imbarazzo i genitori. L’autonomia è limitata all’intrusività e all’iperprotettività della famiglia, in quanto ampie aree del funzionamento corporeo restano sotto controllo altrui. E la bambina non riesce a sviluppare le abilità necessarie per potersi relazionare con persone della sua stessa età, di conseguenza diviene abile nelle relazioni con gli adulti. Il suo coinvolgimento nella famiglia non le permette di aprirsi all’ambito  extrafamiliare.

Inoltre, la bambina anoressica che si affaccia all’adolescenza  entra in conflitto e il suo desiderio di entrare in contatto con il gruppo dei pari è ostacolato dall’orientamento verso la famiglia.

Così, invece di riuscire a svincolarsi dalla sua famiglia, come fanno i coetanei,  gli rivolge maggiore attenzione pensando di poterli aiutare a cambiare. I genitori, a loro volta, rafforzano i confini e fanno in  modo che la bambina sia ipercoinvolta nella famiglia.

Nelle famiglie anoressiche i confini sono forti  e ben definiti, questo permette ai membri di rafforzare il loro legame e invischiarsi sempre più.

Un’altra caratteristica delle famiglie anoressiche è la focalizzazione sulle funzioni corporee. Vari membri della famiglia lamentano disturbi fisici e queste lamentele possono riferirsi a malattie reali o semplicemente rappresentare una sensibilità generale ai normali processi fisiologici. Spesso, in queste famiglie emergono preoccupazioni particolari su questioni come il mangiare.

Nel caso in cui queste famiglie subiscono uno squilibrio, tutti membri si compattano per proteggere il sistema, è fanno ciò per reprimere quei membri  il cui bisogno cambiamento minaccia lo status quo.

Sfidare al cambiamento Quando una famiglia anoressica entra in terapia, i famigliari della paziente si presentano come accompagnatori. Secondo loro c’è qualcosa che non va nel “paziente designato”, qualcosa che sfugge al loro controllo e che mette in crisi l’intera famiglia. Il terapeuta familiare sa che quell’individuo sintomatico è parte si un sistema psicosomatico.  Infatti,  lo stesso sistema inserisce il sintomo nella sua rete comunicazionale utilizzandolo per il proprio funzionamento e per la propria comunicazione.

Il sintomo può essere insorto in un individuo sia a causa delle sue particolari condizioni di vita sia come tentativo di risolvere la disfunzione esistente nella famiglia, e la malattia può sparire solo a prezzo di un cambiamento intervenuto nel “gioco familiare” che possa portare la famiglia stessa a funzionare indipendentemente dal disturbo.

Le fasi iniziali di una terapia con una anoressica devono focalizzarsi sulla sindrome che presenta una minaccia di morte[i] e muoversi verso lo scopo primario che è quello di abbandonare il sintomo. Successivamente il terapeuta deve andare otre il sintomo, decentrando l’attenzione dal paziente designato alla famiglia. In questo modo la paziente anoressica  è libera di sperimentarsi solo come parte di un sistema disfunzionale. Ogni terapeuta, cerca poi di sfidare le cinque modalità transazionali che sono direttamente collegate alla comparsa ed al mantenimento di un quadro sintomatico: invischiamento, iperprotettività, rigidità, evitamento del conflitto e deviazione del conflitto. Nessuna di queste caratteristiche sembra sufficiente a sostenere i sintomi psicosomatici da sola, ma l’insieme di esse è ritenuto tipico di un assetto familiare che incoraggia la somatizzazione. Le strategie terapeutiche saranno quindi indirizzate contro queste modalità di transazione. Il terapeuta ha il compito di riformulare il sistema familiare, ed è attivamente coinvolto come agente del rinnovamento mediante l’uso di tecniche atte a provocare crisi e tali da scuotere il sistema e costringerlo a cercare un nuovo equilibrio strutturale, più salutare.

La sfida all’invischiamento consiste nel sostenere lo spazio vitale individuale, sostenere la definizione del sottosistema,, e sostenere l’organizzazione gerarchica familiare.  In genere l’invischiamento viene proclamata come orgoglio delle famiglie anoressiche, in quanto esse si vedono leali, protettive, sensibili e responsabili, cosa che in effetti non sono. Tutte le operazioni che costituiscono una sfida all’invischiamento cercano di aumentare l’autonomia. Il terapeuta sottolinea la necessità di ciascun membro della famiglia di avere uno spazio psicologico. Spesso il terapeuta incoraggia ciascun membro di parlare e ad esprimere un sua idea, rafforzando così la differenzazione. Blocca poi chi decide di parlare come portavoce della famiglia o chi decide di sostenere uno dei membri della famiglia che esprime un’emozione. Offre, comunque la possibilità di poter manifestare il suo stato d’animo e indaga sulle ragioni del pianto.

Inoltre, è importante che il terapeuta differenzi il sottosistemi fratelli ed eviti che altri membri della famiglia si intromettino nel sottosistema dei fratelli. Ma non solo, il compito del terapeuta con queste famiglie è anche di chiarire l’organizzazione gerarchica, definendole aree di responsabilità dei genitori e quelle di ove genitori e figli possono confrontarsi.

Comunque, si può dire che generalmente tutte le operazioni terapeutiche che sfidano l’invischiamento sono operazioni che sostengono l’individuazione.

Gran parte delle operazioni utili per sfidare l’invischiamento sono valide anche sfidare nelle l’iperprotettività. Le famiglie iperprotettive si distinguono per l’intrusività dei membri. Come per l’invischiamento ci sono operazioni che vanno ripetute per rendere cosciente la famiglia. E’ importante, quindi che il terapeuta dia autonomia e autoconsapevolezza a ciascun membro della famiglia, favorendo l’individualità di ciascuno. Talvolta, il terapeuta può notare che la ragazza anoressica fa le veci della madre, ad esempio occupandosi della casa o della preparazione del pranzo, in questo caso la famiglia può essere sfidata ridefinendo i ruoli e i confini di questa famiglia. Anche in questo caso è molto importante decentrare l’attenzione dalla ragazza anoressica ai genitori, in questo modo si evita che la ragazza si consideri la parte “malata”dalla famiglia e si esperisca in modo autonomo.

Spesso le famiglie anoressiche tendono ad evitare il conflitto e apparentemente questo viene confuso con l’armonia della famiglia.  In realtà il fatto che a famiglia non appaia in conflitto, agli occhi del terapeuta, è fuorviante per il terapeuta stesso, che può essere tratto in inganno.

In genere, il terapeuta si oppone all’evitamento del conflitto creando dei confini,anche attraverso la manipolazione dello spazio, che aiutino i membri a discutere e a risolversi sul tema di scontro. Ad esempio, se due membri mostrano un’opinione diversa, gli si chiede di sedersi vicino e di discutere sulla diversa opinione. Il terapeuta in questi casi può essere facilmente triangolato, specie se uno dei membri vuole evitare il conflitto e cercare un’alleanza con il terapeuta stesso. Nel caso in cui  qualche altro componente della famiglia entra nella discussione viene immediatamente bloccato.

Oltre a sostenere il conflitto fra sottosistemi, il terapeuta facilita lo sviluppo della risoluzione del conflitto fra genitori e paziente anoressica. E lo fa ancora una volta definendo i ruoli in famiglia nel rispetto dell’autonomia e dell’età dei membri e della ragazza anoressica.

Sfidare la rigidità della famiglia anoressica non è cosa facile per il terapeuta, che si trova di fronte una “rigidità” “flessibile”. Seppure i due termini sembrano non poter coesistere nello stesso contesto è l’unico modo per poter spiegare la rigidità di una famiglia, che sembra prendere forma secondo l’impostazione del terapeuta  ma, che dopo poco si ricostruisce nello stesso identico modo di prima. Pertanto il terapeuta deve rendersi conto, che con queste famiglie i messaggi vengono ben attutiti e diviene molto efficace la messa in atto dei problemi e la creazione delle prescrizioni concrete, chiaramente differenziate.

La sfida alla deviazione del conflitto è la strategia terapeutica più difficile da discutere, poiché richiede specifiche capacità del terapeuta. Nel proteggere il membro triangolato della famiglia, il terapeuta rischia di associarsi ad esso troppo  strettamente. Ai triangolatori ci si può opporre, ma devono essere anche sostenuti. Allora, il terapeuta deve saper lavorare su entrambi le parti  associarsi simultaneamente con i membri della famiglia in modo tale che si sentino rispettati.

In questi casi è importante che il terapeuta si presenta con autorevolezza e competenza, capacità di ascolto, empatia e direttività.

Bibliografia                                                                                                                       CANESTRERI R., GODINO A., “Trattato di psicologia”, CLUEB, Bologna, 2002.             DSM-IV, “Manuale Diagnostico e statistico dei disturbi mentali”, Masson,2004.

ERCOLANI M., “Malati di Dolore”, Zanichelli, Bologna, 2001.

GLEN O. GABBARD, “Psichiatria e psicodinamica”,Raffaello Cortina Editore, Milano, 2002.

KÜBLER-ROSS E.; “La morte e il morire”, Cittadella Editrice, Assisi,2005

LERMA M.,  Articolo CONVEGNO INTERNAZIONALE “I Pionieri della Terapia familiare” Roma 8/10 dicembre 2000 organizzato da Accademia di psicoterapia della famiglia di Roma, Istituto di terapia familiare di Firenze, Scuola romana di psicoterapia familiare di Roma, www.formazione.eu.com, 2007.

MAROCCI G., “Abitare l’organizzazione”, Edizioni Psicologia, Roma, 1996.

MINUCHIN S.; ROSMAN B. L.; BAKER L.; “Famiglie Psicosomatiche”, Astrolabio, Roma, 1980.

MINUCHIN S.; “Famiglie e terapia della famiglia”, Astrolabio, Roma, 1976.

NOLE’ A., DILORENZO M. , “L’Approccio Sistemico”, Dispensa del Corso di Specializzazione in Psicoterapia Relazionale, Potenza, 2007.

PELLEGRINO F.; “Psicosomatica”, Il Saggiatore, Milano, 1998.

TRENTIN R.; “Gli atteggiamenti sociali”, Bollati Boringhieri, Torino, 2002.

TROMBINI G.; BALDONI F., “Disturbi psicosomatici”, Il  Mulino, Bologna, 2001.


[i] Il termine morte viene usato per indicare un processo, una modalità del divenire, un modo di trasformarsi continuo dell’essere, che chiamiamo più propriamente il “morire”. La continua trasformazione dell’essere è costituita da diversi passaggi da uno stato ad un altro che sono segnati da cambiamenti. Ogni cambiamento implica la privazione o la perdita di uno stato precedente e costituisce la prima esperienza, il primo approccio con la morte. Infatti nello scorrere del tempo nessuno e nessuna cosa rimane simile a se stessa. La morte non esiste come entità, ma solo come concetto: è in verità un’astrazione. L’idea di non essere più quello di prima vuol dire aver fatto morire qualcosa di noi, di brutto o di bello che sia. Questa riflessione e le precedenti considerazioni, che rispecchiano la realtà della nostra condizione umana, possono portare ad almeno due tipi di atteggiamenti o attitudini, in Occidente, nei confronti della morte e del morire: una partecipazione attenta alla vita, ma minata dalla probabilità sempre attuale dell’interruzione della nostra esistenza come progetto, oppure un atteggiamento cinico e distaccato che – come nella classica visione filosofica dello scetticismo – rifiuta obbiettivi giocati su una prospettiva che vede al suo interno un fine non esattamente prevedibile. Ambedue le posizioni riflettono un sentimento di smarrimento, di incapacità e d’impossibilità, a volte, ad affrontare il pensiero della morte. Da quando gli uomini hanno avvertito paura ed angoscia per l’imprevedibilità e la necessità della morte, hanno cercato soluzioni mitiche al senso di sofferenza e consolazione all’inevitabilità della propria fine. L’elaborazione dell’idea di morte e del morire in Occidente è stata influenzata dalla difficoltà di affrontare i sentimenti cupi che essa genera; paura ed imprevedibilità della morte generano negli individui e negli aggregati sociali atteggiamenti atti ad escogitare sistemi per sfuggire alla minaccia della propria fine o alla disgregazione del gruppo di appartenenza. Questi sistemi – il lutto e le dinamiche del cordoglio – hanno conosciuto nel corso della storia (soprattutto nel periodo che segna la transizione tra la società feudale-contadina e l’affermazione dell’individualismo della società urbano-industriale) trasformazioni determinanti per lo sviluppo del concetto di morte. Oltre alla paura ed al senso d’angoscia, hanno influito in modo importante sull’idea di morte in Occidente l’evoluzione dei sistemi di apprendimento e lo sviluppo del pensiero scientifico. Dopo un lungo periodo durante il quale ha prevalso una visione “naturale” della morte (o della morte naturale), l’idea della morte ha dovuto confrontarsi con il pensiero illuminista e la filosofia positivista che chiedevano argomenti più razionali a fronte dei cambiamenti che accompagnano l’invecchiamento, la malattia e le alterazioni irreversibili della materia vivente. Alla trasformazione del concetto di morte ha contribuito un graduale processo di dissacrazione, che da un lato, nel favorire l’affermazione degli aspetti biologici della vita e della sua fine -per esempio rilevando le cause di morte sul cadavere -è stato motivo di rassicurazione, ma che ha riproposto antiche e irrisolte questioni, sollevando nuovi interrogativi sul significato dell’esistenza e dell’aldilà e provocando un inquietante vuoto di riferimenti. Di fronte all’affermarsi di immagini più razionali e di aspetti più concreti della morte, così come di fronte al contemporaneo svanire di miti e riti, all’assenza di codici e tradizioni, l’Occidente si è trovato privo dei riferimenti culturali che servivano se non a spiegare, almeno ad esorcizzare ed accettare la morte e ha trovato rifugio in meccanismi di negazione, spostamento e rimozione, considerati tra le cause più frequenti di manifestazioni nevrotiche e di personalità conflittuali. Così accanto alla ricerca inquieta di risposte rassicuranti sulla possibilità di spostare i confini tra vita e morte, riposa ancora la grande incertezza sulla definizione di morte e, come tentativo di allontanare la minaccia rappresentata dalla certezza del limite, si assiste all’imporsi di filosofie “metropolitane”, nella quale gli elementi di riflessione non sono più la paura della morte, intesa come “la fine”, e del morire, visto come condizione di angoscia esistenziale, ma il timore di non esserci più alle cose del mondo: la paura di “non vivere”, come ansia della perdita di oggetti di culto e di status. Il progetto di sopravvivenza si inscrive oggi in una dimensione prevalentemente orizzontale. In questo scenario ha acquistato rilevanza una nuova immagine della morte, caratterizzata dall’iperrealismo delle rappresentazioni prodotte dall’iconografia e dalla medialità contemporanea. Per ulteriori informazioni C.f.r. Kübler-Ross E.;“La morte e il morire”, Cittadella Editrice, Assisi,2005